Una riforma efficace? Basterebbe più comunicazione

Giovanna Bellini, specializzanda in Balistica forense al Centro di balistica del professor Martino Farneti, è anche frequentatrice di poligono a fini sportivi, è impegnata in prima linea contro la violenza sulle donne e, in generale, sulla violenza interpersonale. È, quindi, una professionista con un bagaglio di esperienze e competenze decisamente trasversale che le ha consentito, negli anni, di avere un quadro preciso del mondo dei legali detentori di armi, delle procedure attualmente previste per la valutazione della loro idoneità psicofisica e di cosa potrebbe essere ulteriormente perfezionato al fine di ridurre ulteriormente l’incidenza, per fortuna contenuta, di delitti commessi con l’uso di armi legalmente detenute.

Il quadro del problema
Considerando che proprio in queste settimane giacciono in Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati ben due disegni di legge restrittivi in materia di armi, presentati dal deputato Pd Walter Verini e dal deputato di +Europa Riccardo Magi, e considerando che un terzo ddl, altrettanto draconiano di quello di Magi, è stato presentato in Senato dalla M5S Cinzia Leone, ci è parso opportuno avere un parere sulla congruità delle misure in essi contenute e su quanto eventualmente possa essere utile al miglioramento della normativa, sotto un punto di vista squisitamente da “addetto ai lavori”.

Nel ddl Magi, in particolare, torna alla ribalta un tema ricorrente nei ddl presentati negli ultimi anni per modificare la normativa sulle armi legali in senso più restrittivo: parliamo, in particolare, della misura secondo la quale tutti i legali detentori dovrebbero sottoporsi a visita psichiatrica annuale. Secondo lei, questa misura è utile ma, soprattutto, è praticabile?

«È difficile ipotizzare che il numero di medici psichiatri in Italia, sia operanti nelle strutture pubbliche sia a livello privato, possa risultare anche soltanto sufficiente a gestire i milioni di visite che dovrebbero essere svolte ogni anno e possa mantenere la puntualità necessaria nell’espletamento delle pratiche. Considerando che già oggi, con i numeri attualmente disponibili, risulta non semplice anche solo la gestione ordinaria dei percorsi diagnostico, terapeutici e assistenziali in ambito della malattia mentale. Al di là di questo aspetto, comunque, molto più efficace rispetto a una visita a scadenza fissa a così breve scadenza, risulterebbe la completa rivisitazione dell’approccio alla valutazione del possessore legale di armi in rapporto agli eventuali eventi che possano verificarsi nel corso della sua vita».

A cosa si riferisce, nello specifico?

«Con il decreto legislativo del 10 agosto del 2018, n. 104, che ha attuato una direttiva del Parlamento europeo, è già stata ridotta la durata della validità del porto d’armi, per la caccia ed uso sportivo, passando to da 6 a 5 anni, e si è sancita una differenziazione tra il certificato rilasciato per l’autorizzazione alla detenzione di armi, rinnovabile ogni 5 anni e attestante che il soggetto non sia affetto da “malattie mentali oppure da vizi che ne diminuiscono, anche temporaneamente, la capacità di intendere e di volere”, e il certificato necessario ai fini della idoneità psico-fisica al rilascio o rinnovo del porto d’armi, rilasciato esclusivamente da specialisti in medicina legale del Servizio sanitario nazionale, da medici militari, della polizia di Stato o dei Vigili del fuoco, in cui viene attestato che il richiedente non deve “assumere neanche occasionalmente sostanze stupefacenti o psicotrope ovvero abusare di alcol”, inoltre le norme comunitarie prevedono sistemi informatici di tracciabilità di armi e munizioni per un adeguato scambio di informazioni tra gli Stati membri.

A fronte di tutto questo però, in Italia, il problema più importante e grave al quale si dovrebbe cercare di porre rimedio, è talora la mancanza o insufficienza di comunicazione tra tutti gli organismi deputati a interfacciarsi con il cittadino possessore di armi o potenziale possessore di armi, a partire dal medico di medicina generale fino alle commissioni multidisciplinari.

Faccio un esempio pratico: data la mia esperienza professionale e personale, ho acquisito ormai un automatismo che mi porta a chiedere, quando esamino un paziente nell’ambito della mia attività di neurologa, con particolari caratteristiche comportamentali, se sia o meno possessore di armi.

In alcuni casi la domanda ha dato riscontro positivo pur trovandomi davanti a un paziente, non necessariamente di età avanzata, seguito da anni da vari specialisti per disturbi sia della sfera cognitiva, come una demenza, sia motoria, come gravi tremori.

Una combinazione che può essere indubbiamente rilevata dal medico certificatore in occasione della visita quinquennale, ma che appunto richiede magari di attendere la visita in questione.

Rendere più ravvicinate le visite, per esempio, in funzione della classe d’età del soggetto, come si fa con la patente di guida, potrebbe essere un passo utile, ma non risolutivo: occorre, in realtà, creare una vera e propria rete interconnessa, che comprenda gli operatori sanitari e l’autorità di pubblica sicurezza, tale per cui sia possibile associare immediatamente il possesso di armi da parte di un soggetto e il verificarsi di eventi che possano risultare incompatibili con esso o anche solo che richiedano un innalzamento del livello di attenzione. Se, per esempio, il medico curante prescrive un ansiolitico, è chiaro che non siamo di fronte a una situazione di piena incompatibilità con il possesso di armi, ma siamo di fronte a una situazione che richiede un monitoraggio. La rete ovviamente dovrebbe includere tanto gli eventi che riguardano la sanità pubblica, quanto quelli che riguardano il coinvolgimento di liberi professionisti privati. Altrimenti si può arrivare al paradosso secondo il quale un soggetto, che risulta in cura presso uno psichiatra privato, potrebbe presentarsi alla visita periodica per la detenzione di armi, anche condotta da uno psichiatra, senza che il medico certificatore ne sia consapevole e con la possibilità che venga ritenuto idoneo alla detenzione di armi, quando magari in quel momento non lo è. Un po’ quello che è accaduto in altri casi tristemente noti».

Come concretizzare nella pratica questi concetti?

«Il primo passo sarebbe quello di coinvolgere in questa rete di sorveglianza passiva non soltanto i medici specialisti ma anche, anzi soprattutto, i medici di base, che costituiscono la prima e più importante barriera valutativa perché, in fin dei conti, sono coloro i quali tendenzialmente vedono più spesso il paziente e lo conoscono meglio. L’altro elemento fondamentale sarebbe far sì che la situazione anamnestica del paziente, con particolare riferimento a specifiche anomalie pregresse, possa essere integrata in un vero e proprio database fruibile da parte dei medici in condizioni stabilite, anche se ovviamente la concretizzazione di questo specifico aspetto potrebbe essere meno agevole di quanto possa apparire a prima vista, nel quadro delle attuali normative in materia di privacy. Vero è, d’altronde, che oggi il legale detentore di armi autorizza di fatto il trattamento dei dati personali e sensibili, frutto di una scelta volontaria, al momento della richiesta delle autorizzazioni necessarie al possesso legale di armi. D’altro canto, anche per compiere operazioni del tutto normali per il cittadino, come l’apertura di un conto corrente, l’attivazione di una utenza domestica e così via, è necessario fornire il consenso a un determinato trattamento dei dati, altrimenti non è possibile effettuare le operazioni in questione».

In tutto questo, il ruolo dell’autorità di pubblica sicurezza in sé è attualmente adeguato?

«Anche nella gestione da parte dell’autorità di pubblica sicurezza si riscontra una evidente mancanza di comunicazione, che a oggi è ormai anacronistica e ingiustificabile: non ha senso, per esempio, che alla morte di un anziano detentore di armi, l’anagrafe avvisi l’istituto di previdenza perché venga sospesa l’erogazione della pensione, ma la Questura continui a ignorare il decesso anche a distanza di anni se non di decenni. Non è possibile che il destino delle armi detenute dal defunto sia affidato in quei casi all’onestà degli eredi. Anche in questo caso, se si riuscisse a mettere “in rete” le informazioni fondamentali sul cittadino, con degli “alert”, si riuscirebbe a ottenere un miglioramento della sicurezza pubblica di notevole efficacia, senza andare a stravolgere le attuali procedure di valutazione periodica di idoneità e, soprattutto, in modo del tutto praticabile rispetto alle attuali risorse nazionali. Auspico che questa linea di principio possa essere raccolta dai giusti interlocutori che, senza ideologismi e preconcetti, possano portarla in Parlamento».

 

Articolo pubblicato sul numero di marzo 2022 di Armi e Tiro