Strage di Christchurch: rispondere invece di subire

La protezione dei luoghi di culto dalla minaccia active shooter. Non ha funzionato la procedura Run-Hide-Fight, ma l’unico first responder ha messo in fuga l’assassino L’episodio di Christchurch (Nuova Zelanda) del 15 marzo scorso ha drammaticamente riportato alle cronache una realtà devastante quanto difficile da concepire: l’active shooting, cioè un individuo coinvolto nell’uccisione di persone (o tentativo), a mezzo di armi da fuoco, in un’area ristretta e affollata. In questo caso un soft target non “protetto” per definizione che si contrappone ai cosiddetti hard target (basti pensare alle infrastrutture dei trasporti come gli aeroporti), che invece ricevono attente analisi dei rischi e predisposizione di misure di mitigazione.
I soft target rappresentano la stragrande maggioranza degli assembramenti umani: dai mercati agli uffici pubblici e privati, da negozi e centri commerciali fino a locali di intrattenimento e spettacolo (come il Bataclan di Parigi), scuole e luoghi di culto. Non a caso questi ultimi sono bersaglio di un numero insospettabile di attacchi, certamente a causa di fervori religiosi portati all’estremo che li rendono bersaglio ideologico, ma altrettanto certamente per le evidenti criticità – tipiche e connaturate – che presentano.
A eccezione dei più simbolici e rinomati (per esempio le maggiori cattedrali), i luoghi di culto presentano, tra le altre, queste vulnerabilità: 1. Non sono aree ad accesso riservato: devono essere, per ciò che rappresentano, aperti, ricettivi e ospitali; 2. Sono spesso vere e proprie gun-free area; 3. Sono sedi di culti religiosi, portatori di messaggi di pace e non violenza, pertanto quasi sempre refrattari alla protezione armata; 4. Hanno scarsa propensione a una pianificazione della sicurezza coordinata con i soccorritori presenti sul territorio.

Le linee-guida Usa per la protezione dei luoghi di culto
Negli Stati Uniti, preso atto dell’estrema vulnerabilità dei luoghi di culto, l’agenzia per la gestione delle emergenze Fema (Us department of Homeland security Federal emergency management agency) da anni promuove la necessità di pianificare la loro protezione, diffondendo vere e proprie linee-guida, oltre che offrendo il supporto concreto necessario a metterle in esecuzione. Le linee guida della Fema rappresentano vere e proprie procedure operative di emergenza (Eop, Emergency operative procedures) e si incentrano, in concreto, sulla necessità di un’adeguata pianificazione e sull’indicazione delle modalità da utilizzare nella gestione del momento di crisi.

I limiti di Run-Hide-Fight nei luoghi di culto e negli altri ambienti ristretti
Per quanto riguarda in modo specifico l’evento active shooter, ormai da molti anni Homeland security department divulga la procedura Run – Hide – Fight, che consiglia, letteralmente e in questo preciso ordine: di fuggire; se non è possibile, di nascondersi; se non è possibile, di affrontare la minaccia. La procedura incontra, però, insormontabili limiti applicativi se riferita ai luoghi di culto e, in generale, a spazi confinati e ristretti. Lo stesso attentato di Utrecht praticamente concomitante (18 marzo) avvenuto a bordo di un tram ha messo drammaticamente in luce l’impossibilità di fuggire e nascondersi in alcuni ambienti.
Run: i luoghi di culto sono spesso sovraffollati e presentano uscite di emergenza limitate e sottodimensionate in vista di una evacuazione immediata e massiva. Hide: molta della superficie dei luoghi destinati al culto consiste in uno spazio completamente scoperto e libero, in cui mancano fisicamente protezioni che siano in grado di nascondere le persone alla vista dell’assalitore (conceal) o addirittura riparare dai colpi (cover). La strage di Christchurch ha testimoniato come, in casi come questo, anche fingersi morti non funzioni. Stupisce come l’assalitore nel primo e più devastante dei due attacchi, godendo di tutto il tempo necessario, abbia rivolto un numero insistente di colpi ai corpi a terra.
Fight: oltre che ultima risorsa, in casi come questo rappresenta anche l’unica, nel tentativo di provocare quanto meno la desistenza dell’assalitore e limitare così il numero delle vittime.

I veri first responder
Ancora una volta il bilancio del massacro sarebbe potuto essere ancora più drammatico se l’assalitore non avesse incontrato la resistenza improvvisa e furiosa di uno tra i presenti, Abdel Aziz, fedele di origine afgana, che lo ha affrontato e inseguito, dapprima con il primo oggetto capitatogli a tiro (un lettore Pos), poi raccogliendo una pistola scarica abbandonata dallo stesso assalitore e lanciandogliela contro, mentre questo era tornato in auto, rompendo un finestrino, verosimilmente cogliendolo impreparato a una reazione e ormai disorganizzato mentalmente, e così mettendolo in fuga, per finire poi arrestato.
I primi potenziali first responder sono i presenti all’evento e sempre più spesso rappresentano il fattore che, quanto meno, contribuisce a contenere i danni dell’azione (leggasi: vite umane).