L’incidenza del bracconaggio sul leone in Africa

Nelle scorse settimane è andato in onda in tv un filmato nel quale il Wwf metteva in risalto la criticità del numero di leoni presenti in Africa. Numero destinato, oltretutto, a diminuire costantemente. Bontà loro, per la prima volta non è stata addebitata alla caccia tale diminuzione. Le motivazioni sono state invece ricondotte al bracconaggio, alla sovrappopolazione umana, allo spazio sempre più esiguo del territorio a disposizione. Ma niente caccia. Che finalmente l’abbiano capito? Uno dei grandi problemi di tanti animali selvatici nel mondo è, infatti, la continua invasione dell’essere umano nel suo, del leone o altri, habitat. La sovrappopolazione umana invade i territori integri e spesso, anzi sempre, viene a contatto con specie che diventano ben presto pericolose per l’uomo. Per ovviare alla predazione di animali allevati (ed esseri umani…), spesso la soluzione è eliminarli. Così è per tutti i grandi felini, ovviamente carnivori, che entrano in competizione con i nuovi arrivati umani nel loro territorio. Venendo al bracconaggio, su una rivista americana è stato pubblicato il risultato di una ricerca fatta sui leoni e leopardi africani da parte di Paula White, specializzata in biologia dei carnivori. Su 112 leoni cacciati legalmente, ben il 37% era stato preso, prima dell’abbattimento, a un laccio in metallo messo da bracconieri. Che però non ne aveva provocato la morte (magari perché predisposto per altri animali, tipo antilopi, di piccola o media taglia). Per i leopardi, sempre legalmente cacciati, la percentuale di segni di cattura con lacci scende al 22% su 45 esemplari esaminati però. Inoltre, 30 leoni presentavano pallini di piombo sotto pelle, in corrispondenza del corpo e della testa, altri 13 presentavano ferite sia da laccio, sia da pallini. I pallini non erano stati sparati, con tutta probabilità, per ucciderli, bensì per scacciarli magari dalla zona di pascolo degli animali domestici. Questi segni denunciano perciò quale effettivamente sia il peso del bracconaggio su tali felini.

Come si può fare per arrestare la decrescita? Sicuramente incrementandone l’allevamento e la relativa reintroduzione in natura, come si fa per decine e decine di altre specie. Non certo decretandone l’assoluta e totale protezione: perché quest’ultima rimane sulla carta e nessuno riesce ad assicurarne l’effettività. Un animale protetto, per le popolazioni locali che sono in competizione con quella specie, non ha alcun valore economico, viene visto solo come un parassita da eliminare. Chi potrebbe sostenere tali programmi di reintroduzione e allevamento? Proprio gli introiti derivanti dalle altissime tasse di abbattimento dei maschi adulti. Che oggi debbono avere, per legge, superato i sei anni di età. E quindi molto spesso già menomati da ferite, zampe rovinate da aculei di istrice o canini persi o rotti. Tutte cose che ne decretano la fine come capibranco, venendo così scacciati e sostituiti da altri più giovani. Come legge di natura comanda per perpetuare la specie. Ancora una volta il “Lasciar fare alla natura”, tipico dell’animalismo pietoso, non fa altro che anticipare la fine di questi animali nati nella storia dell’uomo stesso.