Carabine bolt-action: quanto conta il numero di alette di chiusura?

La carabina bolt-action o, per dirla all’italiana, a ripetizione manuale con otturatore girevole-scorrevole (o, ancora, con “chiusura a catenaccio”) è una delle armi probabilmente più longeve nella tradizione armiera: è nata con la retrocarica, ancor prima che si diffondessero le cartucce metalliche (pensiamo al Dreyse 1841 prussiano, allo Chassepot 1866 francese o al nostro Carcano 1867), ed è ancora utilizzata oggi, nel XXI secolo, sia per la caccia, sia per il tiro sportivo, sia per impieghi militari e di polizia. A garantirne l’immortalità, l’eccezionale robustezza strutturale, congiunta a una altrettanto elevata precisione intrinseca, senza dimenticare, comunque, una buona velocità di ripetizione del colpo.

L’offerta del mercato comprende tantissimi modelli, per tutte le tasche e tutti gli usi, il funzionamento di base è sempre il medesimo (si solleva il manubrio, si tira indietro l’otturatore, poi lo si spinge in avanti e si riabbassa il manubrio), ma vi sono alcuni dettagli che caratterizzano fortemente l’originalità di un progetto rispetto all’altro. Uno su tutti, e più di tutti gli altri, il numero e la forma delle alette di chiusura dell’otturatore: i progetti più classici, come l’azione Mauser 98 o la Remington 700, prevedono due alette contrapposte a 180 gradi, ma altri progetti più recenti, come quello della Sako 75-85-Trg, prevedono per esempio 3 alette a 120 gradi o, ancora, sei alette su due serie di tre a 120 gradi (come la Roessler Titan 6), fino ad arrivare alle 9 (tre serie di tre a 120 gradi) della Weatherby Mk V magnum.

Alcuni appassionati, presto o tardi, almeno una volta nella loro vita si sono quindi domandati se i progetti che prevedono più alette di chiusura siano in qualche modo superiori, tecnicamente e strutturalmente, rispetto ai design con due sole alette o se invece sia vero il contrario (less is more, avrebbe detto Coco Chanel…).

 

Da due a tre

La differenza sostanziale, innanzi tutto, è tra chi usa due alette frontali e chi tre. In linea di massima, in realtà la superficie complessiva dei tenoni, che appoggiano contro le relative sedi di chiusura, è praticamente la medesima tra un otturatore a due tenoni e uno a tre. Ci sono, tuttavia, alcune sensibili differenze: innanzi tutto, per aprire un otturatore con due alette, occorre una rotazione del manubrio di 90 gradi, mentre con 3 alette a 120 gradi, il movimento di apertura è di soli 60 gradi.

Questo, in teoria, velocizza il movimento di riarmo nel caso in cui sia necessario sparare più colpi in rapida successione. Inoltre, in tal modo è più semplice evitare interferenze tra il manubrio dell’otturatore e l’oculare di un cannocchiale di puntamento che sia montato con assetto molto basso. In compenso, una escursione di 90 gradi nella rotazione del manubrio determina un movimento di armamento del percussore (tramite un profilo a camme) più dolce e progressivo rispetto a quello di un otturatore a tre tenoni che, limitando il movimento a soli 60 gradi, per l’armamento del percussore necessita di un profilo a camme più ripido. La differenza, tuttavia, in molti casi non è avvertibile, anche perché la durezza di armamento dipende anche da altri fattori, come il carico della molla, la lucidatura delle superfici di contrasto eccetera.

Un altro aspetto che si può verificare con le carabine industriali di serie, è che le tolleranze tra le alette e le sedi di chiusura nell’azione, determinino un appoggio non perfetto dell’otturatore. Ciò, allo sparo, in alcuni casi, con un’arma con otturatore a due alette, può comportare una vibrazione dell’otturatore allo sparo e una leggera dispersione della rosata in senso verticale. Un otturatore a tre tenoni, risulta in questa eventualità più stabile e meno incline a questo fenomeno. Ovviamente, se parliamo di prodotti custom con rettifica delle sedi di chiusura e delle alette, una azione a due tenoni sarà in grado di fornire prestazioni ottimali tanto quanto una a tre (tanto è vero che nel Bench rest, ancora oggi, si usano azioni a due tenoni).

 

Il cilindro “grasso”

La tendenza a realizzare otturatori con tre, sei o anche nove alette di chiusura, in serie di tre a 120 gradi, si sta diffondendo in questi ultimi anni (ma Weatherby aveva precorso i tempi con la sua Mark V, ancora a metà del XX secolo), in combinazione con una ulteriore tendenza, che è quella di avere il corpo cilindrico dell’otturatore che presenta un diametro pari, o leggermente superiore, rispetto alla sommità delle alette. È quello che negli Stati Uniti viene chiamato “fat cylinder”. Oggi sempre più produttori si stanno orientando sul fat cylinder, perché consente di semplificare in modo sostanziale la lavorazione della scanalatura di scorrimento nell’azione, la quale ovviamente con un otturatore siffatto, è semplicemente di forma cilindrica. Ecco allora che avere un otturatore a tre o anche sei, o addirittura nove tenoni, consente di avere una buona superficie di tenuta delle alette, limitando però al contempo l’altezza delle alette stesse e, di conseguenza, il diametro totale dell’otturatore (quindi il suo peso e il peso, e diametro, dell’azione che deve contenerlo). Ecco perché, per esempio, con il fat cylinder praticamente nessun produttore utilizza due sole alette di chiusura, il minimo è tre, più spesso sei, su due ordini di tre a 120 gradi.