La protesta delle Guardie giurate romane

Le guardie giurate romane sono vicine alla paralisi delle attività a causa delle lungaggini per il rilascio dei certificati medici: previsto un sit-in davanti alla prefettura di Roma Guardie giurate sul piede di guerra a Roma: tanto che le associazioni di categoria Cigl-Filcams, Fisascat Cisl e Uitlucs hanno organizzato un sit-in di protesta davanti alla prefettura per il 27 luglio dalle 9 alle 13. Ma cosa sta succedendo? Succede che, come anche accade per i semplici cacciatori o tiratori, ormai da alcuni anni questure e prefetture non accettano più un certificato medico per il rinnovo del porto d'armi rilasciato dai medici militari o della polizia di Stato al di fuori delle proprie strutture di appartenenza, ma solo se rilasciati all'interno delle strutture militari di competenza. Di conseguenza, poiché è pressoché impossibile per chi non appartiene alle forze armate o di polizia farsi visitare dentro le strutture, non resta che rivolgersi alla Asl, la quale però ha tempi biblici per il rilascio anche perché, specialmente a Roma e nel Lazio, il medico certificatore spesso (anzi praticamente sempre) prescrive ulteriori accertamenti specialistici, che dilatano ulteriormente i tempi (e i costi…). Risultato? Alla scadenza del porto d'armi, il certificato medico è ancora di là da venire e, di conseguenza, la guardia giurata non può lavorare. E se non lavora… non viene pagata. Anzi, al protrarsi dell'impossibilità di lavoro, può anche scattare il licenziamento per giusta causa. Ma il problema rischia di riflettersi anche sull'attività di vigilanza nel suo complesso: come infatti hanno fatto notare le associazioni di categoria, "sussiste tra l'altro anche un rischio, legato alla sospensione delle Gpg per i ritardati rinnovi, di copertura dei servizi compresi quelli di sicurezza complementare e di presidio di obiettivi sensibili (D.M. 269/2010) come aeroporti, ospedali eccetera". La questione, in realtà, è fondata su un grosso equivoco, punto conclusivo di una diatriba che va avanti da vent'anni, cioè da quando (28 aprile 1998) fu emanato l’ultimo decreto del ministero della Sanità relativo all’accertamento dei requisiti psicofisici per il rilascio dei porti d’arma. Infatti, mentre l’articolo 35 del Tulps, nello specificare quali autorità fossero competenti al rilascio del certificato medico per il nulla osta (e in senso lato per il Porto d’armi) indicava genericamente “dal settore medico legale delle Aziende sanitarie locali o da un medico militare, della polizia di Stato o del Corpo nazionale dei vigili del fuoco”. Il decreto ministeriale del 14 settembre 1994 (sostituito da quello del 28 aprile 1998) stabiliva inoltre che il certificato potesse essere rilasciato da “strutture sanitarie militari o della polizia di Stato o da singoli medici del ruolo professionale dei sanitari della polizia di Stato o da medici militari in servizio permanente e in attività di servizio”. Invece l’articolo 3 del decreto attribuì tale competenza agli uffici medico-legali, ai distretti sanitari delle Unità sanitarie locali e alle “strutture sanitarie militari e della polizia di Stato”. Sembra la stessa cosa, ma non lo è: nella prima indicazione, infatti, è il “medico militare” a essere competente al rilascio, mentre nella seconda è la “struttura sanitaria militare”. Ne consegue che nel primo caso il medico militare può rilasciare il certificato sia che stia operando fisicamente nella struttura militare, sia che si trovi nel proprio ambulatorio privato, nel secondo caso teoricamente no. Teoricamente, appunto.

Della questione si occupò, in tempi molto rapidi, il Tar del Veneto (logicamente dietro ricorso), pronunciando il 3 settembre 1998 l’ordinanza numero 1.217, con la quale si sospese cautelarmente l’efficacia dell’articolo 3 del decreto. In attesa di un pronunciamento definitivo sulla questione che, a quanto pare, non arrivò mai.

A stretto giro si pronunciò anche la Direzione generale della sanità militare del ministero della Difesa con la circolare 559/C28180.10100A(1) del 1° giugno 1999, nella quale oltre a dar conto dell’ordinanza sospensiva del Tar, si precisò che “È parere di questo ufficio che deve ritenersi applicabile il precedente decreto del ministero della Sanità del 14 settembre 1994, limitatamente alla parte oggetto dell’impugnativa (art. 3), ovvero devono ritenersi validi i certificati forniti dai singoli sanitari”. La circolare specificò anche che “Nella considerazione che un decreto ministeriale non può abrogare una norma di legge tuttora vigente (art. 35 del Tulps), la scrivente ritiene che tutti i medici militari in servizio permanente e in attività di servizio, possono rilasciare le certificazioni in argomento che, comunque, come sempre dovranno essere redatte secondo gli inderogabili dettami suggeriti da scienza e coscienza e avvalendosi, se del caso, anche della consulenza di specialisti”.

Occorre intendersi sul termine “in attività di servizio”, perché ci sarà utile per procedere nel ragionamento. Con tale termine non si intendeva, infatti, che i medici militari dovessero trovarsi fisicamente all’interno dell’ospedale militare, ma che semplicemente vi risultassero in servizio attivo, per differenziarli dai medici militari in quiescenza. La precisazione non era secondaria, perché l’articolo 119 del codice della strada consentiva anche a questi ultimi di emettere i certificati per il rinnovo della patente di guida, mentre per il rilascio dei certificati per il Porto d’armi risultavano tassativamente esclusi. Una volta raggiunto questo “equilibrio” di interpretazioni da parte del ministero della Difesa, la situazione non è più cambiata fino al 2013: i medici militari hanno seguitato a rilasciare i certificati in questione nei propri studi o nelle autoscuole (con significativi vantaggi in termini di tempo d’attesa e orari di ricevimento, per gli appassionati d’armi, rispetto ad alcune Asl), questure e commissariati hanno continuato ad accettarli senza colpo ferire, anche dopo l’eventuale perenzione del giudizio davanti al Tar del Veneto (in parole povere, la decadenza di tutto il processo amministrativo del 1998 per il mancato compimento di atti necessari al suo proseguimento da parte delle parti, cosa che generalmente avviene nel termine massimo di cinque anni) e, quindi dell’altrettanto inevitabile decadenza dell’ordinanza sospensiva.

Tutto questo fino, appunto, al 2013, più precisamente fino al 4 luglio, allorché l’Ispettorato generale della sanità militare dello stato maggiore della Difesa ha inviato alla questura di Salerno e per conoscenza al ministero dell’Interno una lettera, nella quale ha voluto ribadire e chiarire il concetto di medici “in servizio”. Nella lettera, infatti, si legge che “L’accertamento dei requisiti psicofisici… è riservato esclusivamente al personale medico in attività di servizio. Pertanto, a parere di questo Ispettorato generale, gli ufficiali medici in “ausiliaria” o in “riserva” possono rilasciare i certificati in titolo, purché si trovino nella condizione di trattenuti o richiamati temporaneamente in servizio ed operino presso le strutture sanitarie militari di cui al summenzionato articolo 3. In tale contesto, si ritiene infine opportuno ribadire che risultano tassativamente esclusi dalla potestà certificativa in oggetto i medici militari in quiescenza ovvero cessati definitivamente dal servizio, ancorché gli stessi siano, a mente dell’articolo 119 del decreto legislativo 30 aprile n. 285 recante Nuovo codice della strada, legittimamente abilitati ad altra attività certificativa concernente l’idoneità alla guida di autoveicoli e motoveicoli”.

Insomma, si ritorna all’inizio: il ministero della Difesa non intendeva dire che i medici militari dovessero rilasciare i certificati obbligatoriamente dentro le strutture di riferimento ma semplicemente che, per poterli rilasciare, avrebbero dovuto risultarvi in servizio.