La Nuova Zelanda insegna che il buyback non funziona

Il Financial post, giornale economico e di attualità canadese, si è recentemente occupato di analizzare l’ormai famigerato programma di riacquisto delle armi messe al bando dall’amministrazione Trudeau, facendo una stima aggiornata sui costi del programma ma, soprattutto, facendo un confronto su uno dei Paesi che ha più di recente svolto una iniziativa analoga, cioè la Nuova Zelanda.

In Nuova Zelanda, peraltro, la messa al bando non ha riguardato solo le cosiddette “armi d’assalto” (definizione quantomai evanescente, comunque) ma la stragrande maggioranza delle armi semiautomatiche. Il costo complessivo dell’operazione, per la gestione amministrativa della consegna delle armi, è stato di 31 milioni di dollari, contro i 16 preventivati, mentre l’ammontare del risarcimento del controvalore delle armi consegnate è stato di 106 milioni di dollari. Il tutto, per un Paese che conta appena 5 milioni di abitanti.

Il Financial post evidenzia, inoltre, che nel decennio precedente il buyback i reati violenti con armi da fuoco erano in media 932 all’anno. Nel 2019, anno del buyback, i reati sono stati 1.142; nel 2020, 1.156; nel 2021, 1.338 e nel 2022, 1.444, con un aumento di quasi il 55 per cento rispetto al decennio precedente al divieto. “Evidentemente i neozelandesi non sono diventati più sicuri perché il governo ha portato via le armi da fuoco ai proprietari rispettosi della legge”, chiosa l’articolo del quotidiano canadese.

Il Financial post cita anche quanto dichiarato recentemente dalla National police federation, l’organizzazione di categoria della Royal canadian mounted police, secondo la quale l’operazione di buyback è “una iniziativa costosa, che non affronta le minacce urgenti per la sicurezza pubblica, deviando personale, risorse e finanziamenti estremamente importanti per affrontare la minaccia immediata e crescente dell’uso criminale di armi da fuoco illegali”.