Da Gaza all’Europa: Jihad, coltelli e morte

Venerdì 13 ottobre ad Arras, nel nord della Francia, un ventenne di origini cecene, Mohammed Mogouchkov, ha fatto irruzione nel liceo Gambetta-Carnot e ha ucciso a coltellate un docente prima di ferire gravemente altre due persone al grido di Allah Akbar.
L’assalitore era schedato e sotto sorveglianza da parte della polizia francese ed è stato arrestato subito dopo insieme al fratello, pare già fermato nel 2019 perché sospettato di preparare un attentato.
Ancora una volta, dunque, un attentatore ha scelto lo strumento più facile da reperire e occultare, più letale anche nelle mani di persone impreparate e più indifendibile.
Non a caso Daesh pubblicò, ormai anni or sono, un ricco inserto all’interno del n. 2 della sua rivista Rumiya, con il quale divulgava le linee guida di come scegliere il coltello più adatto, come individuare le situazioni più paganti e come utilizzarlo più efficacemente, di modo da diffondere presso chiunque, vicino e lontano, l’idea di poter colpire la società occidentale in modo significativamente cruento senza bisogno di strumenti tracciabili (come le armi da fuoco), senza intrattenere per forza legami con strutture organizzate e senza particolare preparazione.

La recrudescenza del conflitto israelo-palestinese
Che quelle terre siano oggetto di contesa militare tesa a strapparsi reciprocamente terre e risorse è storia millenaria, basti leggere l’antico testamento. E l’assetto geopolitico degli ultimi secoli di certo non ha contribuito a dare stabilità.
Tuttavia, la recrudescenza del conflitto di questi giorni, come è ovvio, non può che innescare una recrudescenza anche del piano asimmetrico di un conflitto che, da strettamente territoriale, nei millenni è diventato ideologico e sociale, finendo per sancire due blocchi contrapposti. Ci sarà anche un “terzo” che godrà tra i due proverbiali litiganti?

Radicalizzazione e società occidentale
Quando, poi, tra due schieramenti si stratificano nei secoli uccisioni e devastazioni, il seme dell’odio duraturo è ben piantato, a prescindere dalle posizioni, dagli episodi e dalle ragioni originarie.
Come abbiamo avuto occasione di approfondire numerose volte, gli odierni player del jihad, e in particolar modo chi agisce in occidente, sono in buona misura espressione di una radicalizzazione che ha storie diverse, ma cause sempre simili.
Origini diverse, perché gli esecutori materiali di gesti del genere, a differenza di chi è legato a grosse strutture criminali e può approvvigionarsi di armi da fuoco ed esplosivi, spaziano dall’auto-radicalizzato dell’ultima ora all’occidentale convertito, da chi è mosso da sentimenti di vendetta nei confronti dell’occidente per i fatti degli ultimi decenni fino a chi è sentito illuso da promesse di benessere economico ed è stato deluso… fino a chi si è fatto convincere da promesse poco più che alimentari, alla faccia del fervore religioso.
Le cause di origine sociologica dei radicalizzati presso gli immigrati di seconda e terza generazione infatti, hanno un ruolo pesantissimo. Dal canto suo, l’attentatore di Arras sembra essere il prodotto che è lecito attendersi da una famiglia che lo cresce a pane, odio e Jihad, almeno se consideriamo che la sua famiglia, proprio per ragioni di radicalizzazione, aveva ricevuto un ordine di espulsione già nel 2014, ma sul punto torneremo dopo.

Intelligence, politica, Ong: uno scacchiere complesso
La buona notizia è che persone come l’assalitore di Arras sono da tempo intercettate e costantemente monitorate dai servizi di sicurezza dei paesi occidentali.
La brutta notizia, invece, è che il monitoraggio che ricevono non contribuisce a evitare l’evento dannoso, specialmente se portato a compimento con un coltello: nessun flusso di informazioni né di attrezzature e armi che possa essere seguito in sede investigativa…
Nato nel 2003 in Russia, era stato schedato dalle autorità francesi con la lettera S, solitamente riservata, tra gli altri, ai radicalizzati. I servizi francesi sembra che da tempo lo seguissero e intercettassero le sue chiamate, persino fermandolo per un controllo lo stesso giorno dall’attacco!
Ma, si sa, un attacco con il coltello è impossibile da intercettare in anticipo, a meno di arrivare a limitare la libertà personale di chi è sospettato di poterlo compiere.
La misura indicata, però, sembra politicamente impercorribile perché la politica sembra ogni giorno più lontana dal concetto di concreto governo e indirizzo di un Paese, ancora di più in tema di sicurezza.
Interessi difficile da comprendere muovono ormai ogni decisione, nonostante (e spesso apertamente contro) chi si sforza, comunque, di fare sicurezza ogni giorno.
A proposito, come si è anticipato sembra che la famiglia dell’attentatore sia stata raggiunta da un ordine di espulsione già nel 2014, ordine mai eseguito a causa dell’intervento mobilitante di alcune associazioni attive nell’aiuto ai migranti.
La circostanza la dice lunga sull’equilibrio di potere tra i vari attori: associazioni private riescono a impedire provvedimenti giudiziari; Ong trafficano in esseri umani ormai indisturbate e davanti alle telecamere dei Tg importando, tra l’altro, anche un certo numero di criminali tra cui radicalizzati terroristi, con buona pace dell’ex ministro dell’Interno Minniti, che pochi giorni fa ha dichiarato che “non un solo terrorista è arrivato con i barconi”… memoria davvero corta.
Insomma, il terrore non ha mai smesso di mietere vittime anche in occidente e il coltello resta uno strumento letale e brutale. Il conflitto di Gaza non farà che imprimere energia al volano anche della dimensione asimmetrica del conflitto. Le scuole restano un luogo di aggregazione nei confronti dei quali la rabbia trova spesso sfogo: dal terrorismo all’active shooting più rancoroso, restano un soft target sul quale meditare.
E nel frattempo, occhi aperti perché ne vedremo delle belle.