Il bando dei black rifle non serve contro i criminali: parola di giubbe rosse

Il sindacato della Royal canadian mounted police canadese ha recentemente chiesto la revoca della messa al bando di oltre 1.500 modelli di armi legalmente detenute da parte dei ministri Blair e Trudeau: non ha alcun effetto sulla criminalità e rischia di costare una cifra mostruosa

La National police federation, che è il sindacato della Royal canadian mounted police, le celeberrime “giubbe rosse”, ha commentato recentemente il provvedimento di messa al bando di oltre 1.500 modelli di armi “di aspetto militare” preso la scorsa primavera dal primo ministro Justin Trudeau, con l’appoggio del ministro per la sicurezza pubblica Bill Blair. E si tratta di una stroncatura senza appello: secondo le giubbe rosse, infatti, il provvedimento non ha alcun effetto sui crimini violenti che vengono commessi in Canada e sarebbe invece preferibile introdurre misure che siano “basate sui fatti” per assicurare la sicurezza pubblica.

La valutazione è scaturita dall’esame delle statistiche sulla criminalità in particolare con uso delle armi in Canada, che non risulta in alcun modo diminuita dopo i provvedimenti di messa al bando dello scorso maggio. L’associazione ritiene invece molto più efficace la destinazione di fondi all’incremento della sorveglianza delle frontiere con gli Stati Uniti, per combattere il traffico illegale di armi.

“Il bando proposto da Bill Blair è politicamente popolare”, ha commentato il presidente della National police federation, Brian Sauvé, “ma ha fallito nel proprio scopo di stroncare la causa delle violenza con le armi. L’idea era che imponendo restrizioni al possesso legale di armi avremmo diminuito i crimini, la realtà è che il traffico illegale di armi garantisce una eccellente reperibilità di questi strumenti alla criminalità, da cui deriva il loro impiego. Quindi, occorre andare all’origine del problema”.

Tra l’altro la messa al bando delle armi “di aspetto militare” voluta da Trudeau e Blair è stata determinata dalla strage commessa da un folle a Portapique, in Nuova Scozia, nell’aprile scorso, ma la maggior parte delle armi utilizzate dallo squilibrato (3 su 4) erano state illegalmente contrabbandate dagli Stati Uniti, anche perché l’autore della strage non aveva una licenza canadese per l’acquisto legale di armi.

La National police federation ha avanzato anche una richiesta di abbandono del programma di “buyback” delle armi di aspetto militare (che non potranno essere più detenute nel volgere di 2 anni e quindi dovranno essere consegnate dietro indennizzo), perché l’operazione, oltre alla scarsa efficacia pratica, rischierà di avere costi molto superiori al preventivato. Secondo il ministro Blair infatti, il “buyback” dovrebbe avere un costo tra i 500 e i 600 milioni di dollari canadesi, ma una analisi indipendente condotta dal Fraser institute suggerisce che l’importo totale potrebbe raggiungere i 5 miliardi di dollari, grazie anche al riscontro ottenuto con l’operazione condotta in Nuova Zelanda. Oltre al costo vivo del rimborso da riconoscere ai proprietari espropriati delle armi, infatti, occorre considerare i gravosi costi connessi al funzionamento di tutta l’operazione, che avrà implicazioni logistiche notevolissime per la necessità di prevedere depositi idonei alla custodia delle armi prima della rottamazione e per la rottamazione medesima. Il database nazionale per la registrazione delle armi, che secondo i suoi fautori sarebbe dovuto costare 2 milioni di dollari, in effetti alla fine della sua messa in opera ha raggiunto la rispettabile cifra di 2,7 miliardi di dollari dei contribuenti, sempre secondo il rapporto Fraser.

Costi che, secondo le forze dell’ordine, potrebbero e forse dovrebbero essere investiti là dove veramente serve, cioè nel rafforzamento della sorveglianza dei confini e nel contrasto alla criminalità e al contrabbando, non per operazioni demagogiche rivolte ai legali detentori di armi.