Vademecum di difesa dagli abusi dell’autorità

Gran parte dei problemi che il cittadino ha con le autorità in materia di armi sono riferibili a quattro o cinque casistiche fondamentali

Gran parte dei problemi che il cittadino ha con le autorità in materia di armi sono riferibili a quattro o cinque casistiche fondamentali: ecco un vademecum di sopravvivenza stilato dall’avvocato Silvia Gentile della Fisat, in modo che il cittadino-utente di servizi sappia come comportarsi nei singoli casi, anche senza dover necessariamente chiedere la tutela legale. Sono in ordine di classifica, dalla meno frequente alla più frequente, basata sul numero di volte in cui il caso è capitato.

 

PERQUISIZIONI E SEQUESTRI ILLEGALI

Questa della perquisizione illegale, se non addirittura abusiva, è un caso che fortunatamente capita sempre di meno, prima di tutto perché i tribunali l’ applicano in maniera sempre più restrittiva e secondariamente perché, di conseguenza, le stesse forze di polizia effettuano tali operazioni con sempre maggior prudenza. Tutto parte dall’articolo 41 del Tulps, che autorizza le perquisizioni (anche per edifici e blocchi di edifici) per la ricerca di armi. Tale norma, approvata in epoca prefascista di grandi tumulti politici conseguenti alla prima guerra mondiale, dà alla polizia un potere enorme. Proprio per la sua abnormità ed eccezionalità (l’articolo 14 della costituzione tutela il domicilio e ne dispone la violabilità solo su decreto dell’autorità giudiziaria), questa norma andrebbe usata con (purtroppo raro) buonsenso. Invece capitano spesso perquisizioni, anche a cura di guardie venatorie, che per mera “segnalazione anonima” piombano nelle abitazioni delle persone (mi è capitato il caso della segnalazione anonima di un vicino che ha visto un cacciatore macellare un capriolo, ignorando che il capriolo è cacciabile da parte dei selettori e che va rapidamente macellato per effettuare i prelievi da trasmettere agli organi di studio zoofilo), se non addirittura, in un caso ampiamente documentato, la partecipazione ad armi spianate di consulenti e periti balistici in un caso di perquisizione a una fabbrica d’armi. Ma cosa accade dopo? Nove volte su dieci la “soffiata” si rivela infondata, le armi da guerra si rivelano armi comuni denunciate e la polizia giudiziaria si trova in grave difficoltà. Perché spesso si rileva, dalla lettura degli atti a bocce ferme, che la mirabile attività di indagine esperita si conclude nella raccolta dell’informazione e immediata presa d’assalto del domicilio del cittadino con grande show di armi e stridio di gomme e, quel che è peggio, emerge da subito che la “fondata notizia” è spesso proveniente da tossicomani colti con la tipica dose in tasca. Altrimenti non si spiega come mai le perquisizioni per ricerca di armi siano operate così spesso da reparti antidroga che dovrebbero dedicarsi sì alle armi, ma a quelle dei narcos. Nel caso singolo in cui la perquisizione “va bene” (parlo di perquisizioni a incensurati) porta al rinvenimento di qualche colpo in più rispetto a quanto denunciato, di omesse custodie, al rinvenimento di “arsenali” fotografati per fare la “giornalata” e cercare di mettersi al riparo da eventuali richieste danni, invero sempre più frequenti. Come rimediare? Questo stato di illegalità deve finire ed è nostro diritto di cittadini onesti pretendere che le forze di polizia facciano almeno un accertamento informatico per verificare se le armi segnalate dall’infame di turno (magari colto a prostitute) siano o meno legalmente detenute (ci voglio al massimo cinque minuti) e poi (per mero scrupolo di coscienza) se il segnalato sia o meno un probo cittadino e, in tal caso, fare una perquisizione più indolore e meno scenica. Come rimediare? Il cittadino onesto che viene colpito da una di queste operazioni “filmiche” ha varie frecce al suo arco. La prima è farsi consegnare una copia del verbale di perquisizione, a cui si ha diritto amplissimo (tanto più la perquisizione è infondata tanto meno tendono a darla, la copia); nel verbale devono essere inserite le eventuali osservazioni. La seconda è acquisire (nei debiti tempi) copia dell’atto con cui è stata la trasmessa la convalida della perquisizione, in un primo momento non è possibile accedere a tutto finché l’indagine è in corso, ma è possibile farlo all’atto dell’archiviazione o della chiusura delle indagini. A quel punto è possibile verificare quali siano le indagini che la polizia giudiziaria ha e non ha effettuato. Se, come accade piuttosto sovente, questa si è limitata a un atteggiamento di ascolto-assalto vi sono ampi margini per una causa per violazione dei diritti costituzionali, con allegata richiesta danni da notificare all’amministrazione procedente e al pubblico ufficiale più alto in grado (responsabile quantomeno in solido). Le corti italiane stanno cominciando solo adesso all’applicazione garantista della norma, per cui il vero obiettivo è la corte europea dei diritti umani (che dà talvolta anche sonore sberle in termini di danni). Dopo i primi uno o due casi risolti in questo modo, le forze di polizia comincerebbero ad applicare la norma con maggior prudenza e a effettuare i propri accertamenti con maggiore diligenza.

 

MANCATO RISPETTO DEI TERMINI

«Ho fatto domanda di Porto armi da più di sei mesi, non riesco a ottenerlo e non so perché. È regolare?» A questa domanda, che ricevo circa venti volte alla settimana, l’unica risposta possibile è «no, non è regolare». Intanto c’è da dire che il termine di risoluzione del procedimento è di novanta giorni e che, se è pur vero che la pubblica amministrazione può necessitare di un allungamento dei termini, di ciò deve essere data notizia al cittadino con ampia motivazione. Qualcosa di simile a “…non potremo rispettare il termine in quanto dobbiamo effettuare tali ulteriori accertamenti da queste altre amministrazioni”. In genere, invece, motivazioni non se ne danno e quando il cittadino solo e disperato “fa il viottolo” in questura o commissariato, gli vengono propinate risposte vaghe e criptiche tipo “il funzionario non c’è“, “la pratica non è pronta”, o peggio “ma lei con le armi che ci deve fare?”, volta evidentemente a indurre il cittadino a inconfessabili sensi di colpa per aver tentato di avvicinarsi a strumenti di morte che molti intellettuali vorrebbero in mano solo a delinquenti e milizia statale (e di partito). Solo ai più fortunati viene comunicato (in stretta forma orale, bisbigliata come le parole d’ordine dei raduni carbonari) dal piantone di turno la vera motivazione del congelamento della pratica (nel senso che se non si muove il cittadino la pratica rimane congelata e archiviata). E la forma bisbigliata sulla motivazione già ci induce al doveroso sospetto: ché se fosse plausibile, la pubblica amministrazione non avrebbe problema a rispondere apertamente e per acta. Qualche esempio di motivazione ricorrente (e ridicola)? “Mi spiace, lei convive con un tossicodipendente (in genere un lontano parente ora quarantenne, colpito da sanzione amministrativa in età minore)”, “ha precedenti sanitari (il trisnonno è sospettato di essersi suicidato)”. Ma quella che le batte tutte è (per frequenza e gravità): “…Lei è una persona che non dà affidamento di non abusare delle armi perché cinque anni fa ha mandato a quel paese uno in un parcheggio e questo l’ha querelato (il reato è stato considerato così grave per la pubblica sicurezza da essere stato archiviato a vista senza che il poveraccio ne sapesse più niente)”. In questo caso la soluzione non è facile, perché spesso il poveraccio non ne sapeva niente e, quindi, fa fatica anche a ricordarsi l’evento e a difendersi da solo. Ci viene in soccorso la circolare n° 6454 del 17 marzo 2003 del ministero dell’Interno (varata a seguito di una batosta incassata avanti alla giustizia amministrativa per un diniego di Porto d’armi a un cittadino che aveva fatto un patteggiamento), che detta testualmente di valutare con estrema prudenza i casi di applicazione della pena su richiesta delle parti (i patteggiamenti appunto) e quindi, azzarda la scrivente con prudente analogia, le querele cui non sia stato dato alcun seguito processuale. L’intervento del legale fa in genere miracoli con questa pubblica amministrazione che di trasparenza, oltre un decennio dopo l’omonima legge, proprio non vuole saperne. Altrimenti si ricorre in via amministrativa con il proprio legale o tramite qualche associazione. Rimane il nodo spinoso dei precedenti penali: mentre l’articolo 43, primo comma Tulps elenca le categorie per cui non può essere rilasciata licenza in materia di armi, l’ ultimo comma dice che tale licenza può essere ricusata anche a chi non dà affidamento di non abusare delle armi. Ragione per cui i nostri ansiosi questori e prefetti ipso facto trasformano un qualsiasi reato (magari per abuso edilizio o, addirittura, una querela archiviata o ritirata da parte dell’ex coniuge acrimonioso) in un motivo tale da giustificare la ricusazione o il mancato rinnovo della licenza. Tale atteggiamento è evidente violazione di legge in quanto neanche il più illiberale dei gerarchi fascisti si sarebbe mai sognato di ricusare una licenza a un cittadino colpito da querela archiviata (di cui spesso neanche si ha notizia prima del rifiuto della licenza) o che abbia commesso una contravvenzione o un delitto di lieve entità che non abbia alcunché a che fare con le armi o la violenza. Si tenga conto, infine, che un tempo i comportamenti considerati reato erano molti più che ai giorni nostri (un tempo la mancata copertura assicurativa del veicolo era punita con l’ arresto). Purtroppo vi è da dire che, confondendo la licenza di Porto d’armi per difesa con le altre licenze in materia di armi, alcuni presidenti di Tar ottuagenari (fortunatamente in costante riduzione per motivi anagrafici) continuano ad asserire che l’autorità di ps ha una discrezionalità in materia che non ha. In pratica: o il cittadino ha commesso reati tali da giustificare il rifiuto ai sensi dell’articolo 43 Tulps o è proclive alla violenza (ma ci vogliono solidi e coerenti elementi di fatto, ripetuti nel tempo) o la licenza gliela devi dare. Unica discrezionalità ammissibile è la valutazione dello stato di pericolo effettuata in occasione del rilascio del Porto d’armi per difesa. Inutile dire che tale valutazione deve essere fatta all’avvio del procedimento di rilascio e che, nel permanere delle condizioni che dettero luogo a esso, non deve essere effettuata annualmente. Altro concetto duro da far capire (ho clienti che hanno avuto il Porto d’armi per vent’anni e poi se lo sono visto ritirare dalla sera alla mattina senza che nulla fosse cambiato nella loro situazione). Unica strada, esperiti tutti i ricorsi possibili, è ancora una volta la corte europea.

 

OMESSA CUSTODIA DI ARMI

Altro tasto dolente e ancor oggi frequente è il fatto che le forze di polizia (per motivi a me misteriosi) stentino a capire che il dovere di adozione di casseforti e sistemi d’allarme incombe solo ai titolari di licenze professionali in materia di armi (armieri, collezionisti eccetera) e non al normale cittadino che deve solo adottare le normali cautele per impedirne l’ impossessamento a minori, inesperti, minorati di mente. Eppure non è un concetto difficile da capire: basta leggere la legge (articolo 20 legge 110/75) tenendo presente che se un obbligo non è scritto non vuol dire che il pubblico ufficiale se lo possa inventare, ma che tale obbligo non c’è. Se non basta la lettura della legge basta dare un’occhiata alla moltitudine di pronunciamenti della cassazione, tutti favorevoli al ricorrente, nonché dell’eminente dottrina di ben tre magistrati e di un paio di sentenze, benissimo argomentate a scopo didattico, del tribunale di Lanusei (Og). Ma niente: questure e carabinieri continuano a denunciare imperterriti come un rullo compressore. Che di per sé non sarebbe un male enorme, perché i nostri già oberati pubblici ministeri riescono a riconoscere le sciocchezze quando gli vengono propinate e procedono regolarmente all’archiviazione, perché la legge in genere la sanno leggere. Il problema vero, e apparentemente insormontabile, è che le questure continuano a ritenere la semplice denuncia per tale insussistente reato un precedente tale da giustificare il mancato rinnovo della licenza, invocando la già criticata “discrezionalità”. Per riassumere: verifico la commissione un reato che non esiste, ti denuncio per averlo commesso, il procedimento viene archiviato, ma nonostante questo lo considero un precedente tale da negarti la licenza. “Cose ‘e pazzi”, direbbe Totò. Anche perché trovano qualche Tar che gli dà ragione in nome di una “discrezionalità” bandita da tutte le società civili del mondo occidentale e che continua a esistere solo nelle teste di certi questori che avrebbero dovuto nascere nel Regno delle due Sicilie e continuano a propugnare concetti e riserve di potere che le corti europee non esitano a cassare con ampio riconoscimento di danni. Occorre però tanta pazienza, sperando nel contempo che un giorno non troppo lontano la nostra beneamata Unione europea trovi il tempo di abolire anche i Tar, vetusta eredità di stampo sovietico che vede il cittadino sottomesso a un tribunale speciale avanti a cui gode di diritti di second’ordine e dove, anche quando vince, non recupera i danni.

 

RITARDO NEL RILASCIO DELLA DENUNCIA

Primo classificato (di gran lunga): «Lasci tutto qui, la chiamiamo noi. La ricevuta non occorre, tanto la controlliamo noi e sappiamo che la denuncia è qui». Come ben si sa, il cittadino è tenuto a presentare denuncia dell’arma acquistata senza ritardo e lo fa regolarmente a meno che non sia incorso in un giustificato impedimento. E qui viene il bello, anzi il brutto: occhiate ostili, domande suggestive tipo «Ma lei con tutte queste armi, cosa ci fa?» (la risposta volgare sarebbe ampiamente giustificata ma vi prego di trattenervi). E poi il capolavoro di diritto: «Lasci qui, che la chiamiamo noi quando è pronta». E, se il cittadino osa chiedere ricevuta, gli viene risposto «Non serve». Il decreto ministeriale n° 284 del 2 febbraio 1993 all’articolo 3 prevede che per ogni documento consegnato alla pubblica amministrazione deve essere obbligatoriamente rilasciata ricevuta, e ciò a maggior ragione deve avvenire per la denuncia d’armi nel caso di controllo da parte di altre forze di polizia come finanza, guardie venatorie eccetera. La necessità della ricevuta è di tale importanza che lo stesso ministero dell’Interno ne dispone il rilascio obbligatorio persino nel prestampato di denuncia (www.poliziadistato.it/pds/file/ files/armi_comuni-denuncia_detenzione. pdf). Quando si insiste, il pubblico ufficiale risponde che deve registrare l’arma, compilare il modello Ced e solo dopo può ridare la denuncia, anche in considerazione del fatto che manca personale e che “fare pattuglie è più importante”. Pur concordando con il fatto che “fare pattuglie” sia più importante della burocrazia, di ciò non può e non deve essere fatto carico al cittadino, soprattutto se il suo dovere è penalmente sanzionato e non può, senza ricevuta, dimostrarne l’adempimento. Non ho capito il meccanismo del mancato rilascio della ricevuta o di una copia della denuncia timbrata finché non ho compreso appieno come funziona la cessione di armi tra privati. Infatti, se si deve cedere un’arma si necessita della denuncia e se non si ha la denuncia, perché se la sono trattenuta in caserma, non si riesce a cedere, perché non si riesce a produrre né originale né copia. È, quindi, in tutta evidenza, un banale espediente non tanto volto al controllo delle armi, ma a quello della burocrazia, anche se in maniera illegale e irregolare. Cosa fare per risolvere? Con tutta l’educazione far presente che la ricevuta è dovuta in modo assoluto ai sensi del decreto ministeriale e che, in mancanza, ci si rivolgerà a un legale. In genere, nel Paese delle pizze dei mandolini, questa frase fa miracoli risolvendo ipso facto ogni problema. Diversamente il legale lo facciamo intervenire davvero: se non ne avete uno, quello di Fisat. Pur trattandosi di strumenti molto limitati rispetto a quelli americani (per esempio non è possibile chiedere il risarcimento danni) si tratterà, comunque, di uno strumento utile per contrastare l’atteggiamento feudale che troppo spesso si riscontra in questure, commissariati e stazioni carabinieri.