Uccide per difendere il collega, carabiniere indagato. Ed è polemica

Accusa di eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi per un carabiniere che a Roma ha sparato per difendere il collega. Il web si infiamma, vediamo cosa prevede la legge (e le sue criticità)

Sono sempre più infuocate le polemiche in merito all’ennesimo caso di un appartenente alle forze dell’ordine che si ritrova a dover affrontare un procedimento penale dopo essere stato costretto a sparare per difendere sé o altri da una minaccia all’incolumità personale o alla vita stessa.

Il caso che sta facendo discutere tra i media e sul web è quello che si è svolto una ventina di giorni fa in un ufficio nel quartiere romano dell’Eur: due carabinieri sorprendono un ladro (un siriano di 56 anni con precedenti per rapina, lesioni ed evasione), il quale reagisce colpendo al costato con un cacciavite uno dei due militari. L’altro ha sparato due colpi, uno dei quali ha ferito mortalmente l’aggressore.

Ciò che ha scatenato il popolo del web è la notizia secondo la quale il militare che ha sparato è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Roma, con l’accusa di eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi, come “atto dovuto”.

Ma come, si chiede il popolo del web, anche in un caso così lampante di autodifesa bisogna trovarsi tra capo e collo un’accusa da fronteggiare in un procedimento penale? E cosa occorre allora per evitarla, solo farsi ammazzare?

L’uso legittimo delle armi è una delle cause di non punibilità previste, in questo caso, dall’articolo 53 del codice penale, il quale stabilisce che “Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”. I due articoli precedenti ai quali si fa riferimento sono relativi all’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere (51 cp) e alla legittima difesa (52 cp).

Dalla lettura del testo dell’articolo 53 sembra doversi evincere che l’operato del carabiniere che ha sparato rientri perfettamente nella fattispecie prevista: l’uso dell’arma era legittimato sia dalla necessità di “respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità” sia, più nello specifico, dall’esigenza di impedire la consumazione del delitto di omicidio volontario.

Il problema sostanziale, strettamente connesso alla questione e più in generale all’uso delle armi da parte degli appartenenti alle forze dell’ordine nel loro complesso, è che la giurisprudenza degli ultimi decenni ha inteso applicare, pur non essendo specificamente previsto, anche all’articolo 53 del codice penale quel principio di “proporzionalità” che tanti fiumi di inchiostro ha costretto a versare sulla legittima difesa per i comuni cittadini. Da qui, conseguentemente, l’accusa relativa all’eccesso colposo, prevista dall’articolo 55 del codice penale.

Il punto di partenza, ovviamente, è che quando ci scappa un morto o un ferito grave, non può essere “il web” a valutare l’operato di un appartenente alle forze dell’ordine, bensì è corretto, anzi doveroso, che sia un giudice. Questo è il punto di partenza e non può essere messo in discussione, in un ordinamento democratico. Quindi, l’iscrizione nel registro degli indagati è effettivamente un atto necessario.

Il problema, semmai, è “cosa” sia nel frattempo diventato il procedimento penale nei confronti dell’operatore delle forze dell’ordine. Ed è QUESTO ciò che dovrebbe far infuriare per davvero e spingere la politica a intervenire con gli opportuni correttivi normativi.

Il problema è che spesso i giudici si trovano a valutare con il bilancino micrometrico del farmacista, una situazione maturata nel volgere di frazioni di secondo, nella quiete del loro ufficio, protetti e difesi nella loro incolumità e nella serenità del proprio lavoro quotidiano, elucubrando una serie di teorie completamente avulse dal contesto della realtà e talvolta, purtroppo, oscurate da pregiudizi di tipo ideologico.

In particolare la giurisprudenza della corte di Cassazione fa discendere dall’applicazione del principio di proporzionalità la necessità che sussistano numerosi requisiti, per considerare legittimo l’uso dell’arma da parte dell’operatore di Ps: tra questi l’assenza di ogni altro mezzo possibile, la scelta del mezzo meno lesivo tra quelli a disposizione, la graduazione dell’uso di tale mezzo secondo le esigenze specifiche del caso e così via.

Il risultato di questo, in assenza di precise indicazioni risultanti dallo specifico articolo di legge, è che le sentenze si sono dimostrate assolutamente ondivaghe nel corso degli anni, mostrando anche evidenti aberrazioni sul piano della realtà sostanziale. La conseguenza più ovvia è che gli operatori, al di là della mera iscrizione nel registro degli indagati (cosa che, ripetiamo, è doverosa in un ordinamento democratico), non sono poi tutelati in modo sostanziale per quanto riguarda lo svolgimento del procedimento in sé che, come conclusione logica, ha una elevata probabilità di sfociare in un rinvio a giudizio, quindi di trasformarsi in un processo vero e proprio che in molti casi si trascina fino alla Cassazione, con durate complessive che in non pochi casi superano il decennio.

I correttivi a questa situazione, che ormai può definirsi a buon diritto una degenerazione rispetto all’intendimento originario, in ogni caso esistono. Il primo dei correttivi è ovviamente quello di fornire alle forze dell’ordine strumenti multipli per una effettiva modulazione della risposta in funzione della gravità della minaccia. Non si può tergiversare anni sulla fornitura del Taser, per esempio, e poi lamentarsi se l’operatore fa uso della pistola. Se non ha altro a disposizione, cosa dovrebbe fare di preciso?

Altro nodo fondamentale (anche se è il più spinoso dal punto di vista prettamente politico) è modificare in senso migliorativo l’articolo 53 del codice penale, superando esplicitamente l’artificio giuridico della proporzionalità in ossequio al principio (peraltro anch’esso presente nella giurisprudenza) secondo il quale l’autorità dello Stato deve prevalere (in casi tassativamente previsti peraltro già enumerati nell’articolo 53), sulla tutela dell’incolumità personale del privato. Altro elemento importante di tutela dell’operatore è garantire la copertura delle spese legali in corso di procedimento (cosa che in molti casi è ben lungi dall’accadere) e di chiederne eventualmente il rimborso solo nel caso di condanna definitiva per fattispecie dolose e non colpose (cosa peraltro in certa misura prevista dalla recente riforma della normativa sulla legittima difesa). Il terzo elemento correttivo potrebbe sussistere, sempre in ossequio a quanto già verificatosi per la legittima difesa tout court con la recente riforma del 2019, nella predisposizione di corsie preferenziali per la trattazione di questo tipo di precedenti penali, al fine di abbreviare il più possibile i tempi di definizione della questione.

Di certo c’è che così la situazione non può andare avanti e che coloro i quali quotidianamente provvedono alla nostra sicurezza e incolumità devono ricevere una tutela adeguata al loro sacrificio.