Tso e polizia locale: operatori a rischio

Un intervento della polizia locale per un Tso in provincia di Milano assume contorni drammatici per la violenta reazione con un coltello. Ma quali sono gli strumenti a disposizione degli operatori per fronteggiare queste minacce?

Il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) è l’insieme delle procedure sanitarie che vengono applicate a una persona nel caso in cui ve ne sia la necessità clinica a tutela della sua salute e al rifiuto di sottoporsi volontariamente a terapia. In Italia è disciplinato dalla Legge n. 180 del 1978 che prevede, quanto alla procedura, che gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico (art. 1, ultimo comma) e che, nel caso in cui sia stata disposta la degenza ospedaliera, come spesso accade, il provvedimento in questione venga notificato, entro 48 ore dal ricoveroal giudice tutelare, che con proprio decreto procede a convalidare o non convalidare il provvedimento (art. 3, comma 1 e 2). È evidente come, affinché i sanitari possano somministrare le cure necessarie, gli unici soggetti titolati a forzare la volontà del destinatario delle cure siano gli operatori degli Enti e Amministrazioni con funzioni di polizia: nella maggior parte dei casi polizie locali, polizia di Stato e carabinieri. È così che gli operatori si trovano a dover gestire situazioni in cui è necessario vincere la resistenza, spesso violenta e incontrollata, di pazienti frequentemente con disturbi psichiatrici, anche se in chi resiste non c’è volontà cosciente di far male (spesso nemmeno consapevolezza) e ovviamente nella necessità di fornire massima tutela al soggetto come ai sanitari che devono intervenire.

Proprio lo scorso 19 novembre a Bresso, nel milanese, due agenti della polizia locale sono intervenuti per eseguire un Tso nei confronti di una persona, nota da sempre per i suoi disturbi ma che non aveva mai creato problemi per la sicurezza, il quale però ha atteso l’ingresso degli agenti dentro casa per cominciare a vibrare fendenti con un coltello non appena gli operanti vi hanno fatto ingresso.

Il dato sui ferimenti degli agenti durante l’esecuzione dei Tso è da sempre allarmante, tanto da evidenziarli quali servizi davvero critici, e il trend di crescente aggressività generale e scollamento dalle Istituzioni degli ultimissimi anni non ha fatto che peggiorare le cose. A questo si aggiunga che in moltissimi episodi gli agenti sono stati aggrediti con coltelli, oggetti da taglio e punta improvvisati, corpi contundenti (la casistica vanta dai classici coltelli da cucina alle punte di freccia…) circostanza che aumenta esponenzialmente i rischi per l’incolumità degli operanti.

Da più parti si è preso, allora, a invocare l’introduzione di strumenti quali il Taser (peraltro inadeguato in questi casi) o, comunque, di dotazioni che consentano agli agenti di dosare con gradualità l’invasività dell’intervento. Si tratta di strumenti efficacissimi e di indubbia utilità una volta che le intenzioni siano manifeste e criminali, ma incontrano il limite di dubbia utilizzabilità nei confronti di pazienti psichiatrici (che ben possono presentare altre patologie critiche) così come, sotto il profilo operativo, richiedono comunque una condotta “attiva” dell’operante, con tutto ciò che comporta. Non sono in grado di proteggere gli agenti, però, in caso di aggressione inaspettata. Cosa accade quando gli agenti vengono aggrediti improvvisamente?

Non dimentichiamo. Infatti, che l’intervento avviene nei confronti di un soggetto malato e non di un criminale, pertanto l’approccio, salvo che il soggetto dia già in escandescenze, è doverosamente negoziale (l’eventuale costrizione fisica di un malato richiede strumenti e procedure adeguati); anzi, proprio la norma prevede espressamente che gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato, di fatto lasciando la coercizione fisica assolutamente quale extrema ratio e ovviamente solo con il fine ultimo di potergli garantire le cure o di tutelare l’incolumità del personale sanitario che deve procedervi; un paziente psichiatrico (sono tali anche i tossicodipendenti) può cambiare approccio repentinamente e avere accessi di aggressività inaspettati, trasformando in pochi attimi un intervento attento ma sereno in uno scenario conflittuale.

In questi casi accade che il solo strumento in grado di proteggere gli agenti dai primi momenti di un’aggressione violenta e improvvisa, che gli stessi non potranno che subire almeno inizialmente, è rappresentato da adeguate protezioni anti-taglio.

Oggi il mercato offre la possibilità di vestirsi praticamente da capo a piedi con materiali anti-taglio, insieme a validissime protezioni anche anti-perforazione. Molti comandi e reparti stanno sposando la visione secondo cui oggi proteggersi dal rischio di subire un’aggressione con strumenti, anche improvvisati, da punta o taglio è più probabile che essere attinti da un colpo di arma da fuoco e gli effetti non sono di certo minori! Quindi, nel ragionare sulle dotazioni, le protezioni anti-taglio devono ricevere la considerazione che meritano, a fianco o addirittura a volte al posto delle protezioni balistiche. Nella gestione della sicurezza, in fondo, l’individuazione delle contromisure deve essere la risposta all’analisi delle minacce (in termini di probabilità di accadimento e di gravità delle conseguenze) e non scelta arbitraria.