Solo i poliziotti hanno le manette ai polsi

Dopo l’omicidio dei due agenti a Trieste. Le forze dell’ordine hanno “strumenti” (addestramento, procedure, equipaggiamento) inadeguati alle mutate esigenze

L’adeguamento delle norme di una società, fino ad arrivare alla stesura di una procedura operativa di polizia, segue naturalmente l’insorgenza di una particolare esigenza e non la precede certo.

Che, però, i correttivi e le procedure adeguate non arrivino mai è inaccettabile. Anzi, è doloso. Perché non si può certo dire che chi ci governa non abbia sentore di quanto sta accadendo; l’unica altra chiave di lettura è che, sapendo, non ci si adegui comunque, e questo è comportamento certamente volontario.

Sulla strada dell’esame dell’inadeguatezza degli strumenti in mano agli operatori delle forze dell’ordine (e quindi della cittadinanza), pesano come macigni l’assenza di procedure standard di fermo di indiziati di delitto e di accompagnamento presso gli uffici di polizia, come di quelle relative alla gestione della permanenza di un indiziato di delitto (con la presenza di elementi costitutivi riconducibili a violenza, come nel caso di rapina) presso gli uffici per le fasi successive.

Sempre in ossequio a un’ipocrita parvenza di rispetto della persona, dopo decenni passati a inoculare negli agenti il terrore di usare l’arma in dotazione nonostante la previsione normativa di ipotesi legittime di impiego, è ora il momento di alzare il tiro fino a inoculare il terrore di impiegare le manette, procedura espressamente riservata a casi definiti di pericolosità del soggetto, di pericolo di fuga o circostanze di ambiente che rendono difficile la traduzione, vietandolo in tutti gli altri casi. E, come sempre, le aree grigie lasciate alla libera interpretazione caso per caso finiscono con il diventare un divieto tout court.

In ogni caso, ci sentiamo di dire che è arrivato il momento di ritenere ogni soggetto fermato come potenzialmente pericoloso quanto meno relativamente ai reati che contemplano la violenza come elemento costitutivo, come la rapina di Trieste. Occorrono con urgenza procedure standard di arresto, fermo e accompagnamento presso gli uffici di polizia, come occorrono con urgenza procedure standard di gestione delle fasi di permanenza degli indiziati di delitto presso gli uffici stessi.

Fa male ascoltare le parole del questore di Trieste quando afferma che il dispositivo di protezione è entrato in funzione immediatamente e in modo efficace. Che procedure vengono assegnate a chi opera nei posti di guardia? Come vengono classificate le minacce e quali risposte vengono associate a ciascuna in quel servizio? Quanto personale è deputato alla pura protezione dell’infrastruttura e secondo quale configurazione? Quale formazione specifica eventualmente riceve?

A prescindere dalla patologie vere o inesistenti dell’assassino in questione, non è concepibile che un soggetto possa materialmente fare quanto questo uccisore di poliziotti ha fatto. E se qualcun altro, privo di patologie ma con il solo scopo di attaccare un’infrastruttura simbolo delle Istituzioni come una questura, domattina pensasse di commettere un reato quasi trascurabile al solo fine di introdursi in una questura, sottrarre armi agli agenti e fare strage di poliziotti? Lo scenario sarebbe perfetto per un suicide-by-cops del perfetto jihadista…

Anche l’addestramento individuale necessita urgentemente di una revisione. Agli operatori è necessario e indifferibile erogare formazione che descriva scenari tipizzati e che impartisca procedure e tecniche operative che li mettano in condizioni di operare nella massima sicurezza possibile. Oggi non può prescindere dalla protezione dell’arma, dal tentativo di difesa di aggressione con il coltello e da una miriade di rischi che, solo qualche anno fa, appartenevano esclusivamente a scenari esteri.

Da pochi anni stiamo assistendo alla sostituzione delle fondine in cuoio di vecchia generazione con le attuali. Qualche voce, nemmeno troppo isolata, da subito ha mosso critiche nei confronti, tra l’altro, del meccanismo che consente alla fondina di ruotare, in ottica di rendere più confortevole il porto in auto. Chi testa e stressa materiali sa che un meccanismo di rotazione è una criticità strutturale, come lo è una cerniera lampo su di un capo di abbigliamento. Se qualcosa è destinato a cedere sarà il punto strutturalmente più debole.

In ogni caso, a prescindere dalle considerazioni tecniche, quello che stupisce è che ci si continui a muovere “a macchia di leopardo”, dalla legislazione all’adeguamento degli equipaggiamento degli operatori di polizia. Nuova fondina, aspetto accattivante e via, senza che l’adozione di nuovi dispositivi si inserisca nell’individuazione di contromisure concrete a minacce attentamente studiate. Altrimenti non si capisce come gli adeguamenti non seguano l’ordine procedure-formazione-dotazioni.

La sensazione è che la scelta dei materiali dell’equipaggiamento e dell’addestramento rispondano a esigenze diverse da ciò che vivono i nostri operatori quotidianamente per le strade.

Quello che è certo è che la via sulla risoluzione di un problema nasce dal riconoscimento esplicito dell’esistenza del problema. Dalla sua negazione non nasce certo la ricerca della soluzione.