Miti da sfatare: proibire l’esportazione di trofei aiuta la natura?

La Cic interviene con un comunicato per demolire, numeri alla mano, una delle menzogne più pericolose per la sopravvivenza del mondo venatorio. Proibire l’esportazione di trofei di caccia e, di conseguenza, il turismo venatorio, minaccia la sopravvivenza di intere specie e del loro habitat.

Pochi giorni fa sul sito della Cic (International council for game e wildlife conservation) è stata pubblicata una nota volta a sfatare uno dei falsi miti che più minacciano gli interessi dei cacciatori e degli operatori del settore a livello internazionale. Infatti, è credenza diffusa tra politici e attivisti apertamente o velatamente anticaccia che proibire l’importazione e l’esportazione di trofei di caccia tra uno stato e l’altro possa in qualche modo aiutare nella conservazione della fauna selvatica. A un occhio inesperto la tesi potrebbe sembrare apparentemente corretta, riducendo la pressione venatoria dei cacciatori internazionali (la categoria ovviamente più compita dall’eventuale ban) si riducono i danni alle specie selvatiche. All’atto pratico, però, bisogna tenere conto del fatto che la caccia e, di conseguenza, gli animali selvatici, rappresentano una risorsa rinnovabile anche sotto il profilo economico e un mancato sfruttamento di tale risorsa, da attribuirsi a un divieto imposto dal governo, si traduce in un totale disinteresse nei confronti degli animali, che, non rappresentando più una fonte di reddito, sono abbandonati a sé stessi, con conseguenze disastrose sotto il profilo ambientale.

Restrizioni in questo senso, al momento, sono state messe in atto da alcuni Paesi europei come Francia e Paesi Bassi, con il Regno Unito che sta iniziando a valutare l’ipotesi di introdurre una limitazione nell’esportazione di trofei, che affliggerebbe in particolar modo la caccia al cervo rosso scozzese. Gli effetti del ban sono più drammatici ed evidenti per Paesi fortemente interessati dal turismo venatorio, dove la caccia rappresenta una vera e propria industria. In Kenya, per esempio, dopo la totale messa al bando della caccia nel 1976, la popolazione di fauna selvatica si è ridotta del 70% in poco più di 40 anni, proprio a causa della mancanza di incentivi per la popolazione nel prendersi cura degli animali e nel salvaguardare il loro habitat. Fenomeno simile, pur in scala ridotta, anche in Zambia, dove durante i due anni di chiusura della caccia (tra il 2001 e il 2003) si è registrato un aumento esponenziale del bracconaggio. In Botswana l’abolizione della caccia nel 2014 è stata fortemente penalizzante per tutti coloro che erano in qualche modo legati all’industria del turismo venatorio, che hanno perso case, accesso all’istruzione, entrate economiche e, ultimo ma non meno importante, la carne proveniente direttamente dagli abbattimenti, che, come noto, viene distribuita alla popolazione locale. Nel solo delta dell’Okavango (Botswana) le perdite economiche per la popolazione sono quantificabili in 600 mila dollari circa, solamente nel primo anno di ban, con la perdita di oltre 200 posti di lavoro.