Jihad e coltello ai tempi del covid-19

I rischi per la nostra sopravvivenza, come individui e come società, sono di natura diversa e non si escludono a vicenda, anzi. La jihad continua la sua guerra aperta

Esistono rischi economici, geo-ambientali, sanitari e socio-politici. In quest’ultima categoria, poi, il fenomeno terroristico ha preso tanto vigore da meritarsi, a parere di chi scrive, una categoria di rischio autonoma e dedicata. Le varie tipologie di rischio non si escludono l’un l’altra e, in un mondo perfetto, dovremmo essere in grado di reggere anche due o più eventi simultanei in due o più aree di rischio. Anzi, ogni analista della sicurezza sa che, in qualche caso, può addirittura essere la mitigazione di un rischio ad aumentare la probabilità di avveramento di un altro. È evidente, poi, che l’insorgenza di uno tra questi eventi dannosi ben può innescare gli altri e fungerne dunque da causa o, quanto meno, concausa: in questo momento ci è chiaro come una crisi di natura sanitaria ne può determinare altre di natura economica o addirittura socio-politica. Stiamo infatti tutti convivendo con le misure imposte dalla diffusione del covid-19 e ognuno di noi continua a interrogarsi su come il modello di vita che ci ha accompagnato fino a oggi possa convivere e soprattutto sopravvivere alla pandemia, entro quali limiti e a quali costi e condizioni.

Ebbene, in una simile situazione, non è mancata la voce di chi al nostro modello socio-economico-culturale ha dichiarato guerra apertamente: il terrorismo jihadista delle ultime generazioni.

È così che il 4 aprile a Romans-sur-Isere, località di 35.000 abitanti nel Sud-Est della Francia, un sudanese richiedente asilo al grido di “Allah Akbar” ha ucciso 2 persone e ne ha ferite altre 5. Armato di un primo coltello, si sarebbe scagliato contro un tabaccaio, per poi uscire e fare ingresso in una vicina macelleria, dove avrebbe rinvenuto un secondo coltello con il quale, infine, ha aggredito le persone in coda fuori da un panettiere.

Quanto alle modalità d’attacco, già sul numero di settembre 2017 abbiamo trattato diffusamente di come gli attentati a mezzo del coltello siano stati raccomandati e spiegati dai nuovi terroristi, che si sono premurati di dispensare consigli sia su come scegliere accuratamente il coltello più adatto, sia su come selezionare le situazioni in cui colpire, ovviamente favorendo il maggior danno e la massima cruenza possibili (le pubblicazioni scritte e audiovisive a suo tempo diffuse sono molto dettagliate sul punto).

Benché si sappia poco sul profilo dell’attentatore, che è stato arrestato, i dubbi sono pochi: che si tratti di un neo-radicalizzato con una spinta criminale nata più da insoddisfazioni e inadeguatezze psico-sociali o che si tratti di soggetto infervorato da tempo e con legami a concrete reti terroristiche, poco importa in questo contesto di analisi. Il gesto alimenta in ogni caso e senza ogni dubbio la causa delle reti professionali del jihad, che incassano un buon risultato e ringraziano, ancor più in un momento di paura generalizzata. Come abbiamo avuto modo di osservare in più di un’occasione, l’obiettivo del terrorista è infatti quello di contribuire a cambiare un sistema di vita in cui non si riconosce tramite la diffusione, tra l’altro, del panico generalizzato e della sfiducia nelle istituzioni.

Mai come ora il nostro modello di società è fortemente vulnerabile. Viviamo in un momento di enorme stress dovuto al regime di permanenza forzata nelle nostre case, dal timore per la salute nostra e dei nostri cari, da forti incertezze sul futuro, dal dover indossare continuamente maschere e guanti, disinfettare tutto e mantenere una “distanza sociale”… ecco: proprio quella volta che, con ogni precauzione, un cittadino esce di casa un’ora per far spesa deve temere un attacco personale. Si parla di distanziamento sociale, ma quello che ci hanno imposto, di fatto, è esclusivamente il rispetto di quello che in natura è una distanza intima, altro che sociale! Ed è proprio all’interno di quell’ultimo perimetro che le minacce si fanno concrete e spesso irreversibili. Prima di demonizzare, dunque, il rispetto di una distanza da altri individui, varrebbe la pena di conoscere la sua importanza per la nostra sicurezza e il ruolo che Madre Natura stessa le ha riservato per la nostra preservazione.

E siccome viviamo un momento di massima vulnerabilità, dobbiamo essere massimamente forti e radicati. Il mondo mantiene tutte le sue componenti di rischio e tutte le sue minacce, con l’insieme delle quali dobbiamo quotidianamente fare i conti. Il mondo, ovattato nel silenzio delle città e nell’uniformità di persone rese irriconoscibili dalla omologazione da mascherina, ha dovuto cambiar pelle per il devastante impatto del covid-19 ed ecco che la minor tensione per altri fenomeni, come il rischio di un’aggressione personale, agevola loro la strada.

Ecco, allora, che prendiamo atto che le distanze imposte per il rischio di infezione, considerate da alcuni come soffocanti barriere alla socialità, sono in realtà addirittura insufficienti nel caso di aggressione da coltello. Per natura siamo dotati di un sistema che riconosce l’invasione degli spazi come potenziale aggressione, proprio a tutela della nostra sopravvivenza (la prossemica). Ebbene, la nostra sopravvivenza di specie fino al XXI secolo è stata garantita anche dall’istinto che ci porta a mantenere una distanza minima dagli altri esseri, anche della stessa specie, se non invitati ad entrare nei nostri perimetri personali, quando conosciuti come non pericolosi.

Lasciamo allora che la natura faccia il suo lavoro di prevenzione dalle aggressioni e manteniamo una sana distanza e diffidenza: se il virus, da un lato, può aiutare il mantenimento di distanze di sicurezza, può anche instillare un’empatia e una comunanza di disagi che possono contribuire, al contrario, ad abbassare soglie di attenzione e distanze.

Anche il mondo digital e smart in cui siamo ormai giocoforza immersi, nel quale abbiamo sempre gli occhi puntati sugli schermi e corriamo veloci agli obiettivi, gioca un ruolo negativo in questo senso, portandoci a tralasciare le sfumature e i dettagli di tutto ciò che ci circonda: la nostra consapevolezza situazionale (situational awareness) non può però permettersi di subire uno stop in un momento in cui siamo chiamati a una presenza ancora maggiore.

Là fuori, con il volto coperto, non ci sono solo i nostri vicini di casa. Là fuori, non ci sono solo persone uscite dopo giorni e giorni per far spesa. Là fuori ci sono tutte le minacce che c’erano prima, alle quali si è sommato prepotentemente questo virus.

Il terrorismo jihadista, poi, ringrazia il virus come ebbe a ringraziare terremoti, alluvioni e ogni act of God che provochi la morte di appartenenti al “mondo occidentale”. Ci mette poi del suo, strappando ancora vite, seminando ancora terrore, come se non bastasse mai.

Unico dato positivo: la confidenza con le situazioni di crisi e con la stessa morte che questo periodo sta riportando nella vita di molti è di sicuro aiuto. Un fenomeno che si alimenta della risposta terrorizzata della gente non può che trovare persone che, ormai, hanno sviluppato uno scudo più o meno grande contro l’impressionabilità.