Fara vicentino: basta giocare con la vita degli operatori

Soufiane Boubagura, marocchino di 28 anni, il 24 aprile si appende al retro di un furgone dal quale si fa trascinare, poi balza giù e intralcia pericolosamente la circolazione stradale creando panico in chi assiste alla scena, che inevitabilmente procura l’intervento delle forze dell’ordine.

In tutto questo urla “Allah akbar”, lanciando un messaggio ormai noto a ogni cittadino, grido che dalle nostre parti normalmente prelude a un’azione violenta e indiscriminata compiuta nella convinzione di condurre la propria personale battaglia ideologica, sociale e religiosa: in altre parole, un attentato terroristico.

Gli operatori di carabinieri, polizia di Stato e polizia locale lo intercettano ai confini tra Fara Vicentino e Breganze e, stando alla cronaca, lo approcciano senza però che il soggetto ottemperi ai comandi impartiti.

Secondo copione viene quindi impiegato il Taser, che però non funziona. Lo strumento, infatti ed al pari di ogni altro, ha i suoi limiti di impiego ed è dimostrato come i dardi fatichino a raggiungere la pelle nel caso si indossino indumenti molto imbottiti o molto larghi. Boubagura allora si scaglia contro un carabiniere: ne nasce una colluttazione, in esito alla quale riesce a sottrarre l’arma all’operatore (sembra dalla fondina, ma il dato è tanto importante quanto poco chiaro) e incomincia a sparare all’impazzata.

Un altro operatore, nel frattempo riparatosi dietro un camion, risponde al fuoco. Ne derivano l’uccisione di Boubagura e il ferimento di un ulteriore operatore di polizia.

Terrorismo si, terrorismo no
Ovviamente no, rispondono tutti in coro. In realtà, a più riprese abbiamo puntato il faro contro la definizione stessa di terrorismo ed ormai è noto a tutti come un gesto possa ben essere ascritto a terrorismo pure in mancanza di qualsiasi legame con strutture terroristiche organizzate e pur senza usare armi e ordigni di chissà quale natura: il terrorismo è un mezzo. È la diffusione della paura per contrastare l’ordine costituito, con la finalità di soppiantarlo.

La sorella del Boubagura, sentita sui fatti, ha dichiarato come da copione che il fratello era una persona per bene e che la sua uccisione è proprio un’ingiustizia. A proposito, ha riferito che il fratello avrebbe urlato “Allah akbar” solo in quanto esclamazione comune tra le persone di fede.

Ovviamente il movente (terrorismo o no) poco impatta sulla gestione dello scenario, al punto che a freddo e a “bocce ferme” si discute se sia possibile considerarlo terrorismo o meno.

Certo è, però, che Boubagura ha dimostrato di sapere bene come funziona una pistola semiautomatica: verosimilmente avrà camerato una cartuccia o si sarà sincerato di averla già camerata, ha manipolato l’arma senza inserimento accidentale di alcuna sicura (problema invece riferito da numerosi operatori in condizione di stress, in particolare per alcuni modelli) e non ha avuto alcuna remora nell’esplodere numerosi colpi. Alimentando così l’elenco degli episodi di azioni criminose cominciate a budget zero e culminate con l’uso di una pistola semiautomatica con caricatore da 15 cartucce…

Senz’altro non si tratterà di terrorismo. Certo è che l’azione risponde ai canoni di molte altre simili, alimentate da finalità propriamente terroristiche. D’altro canto, è comprensibile che le istituzioni non diano soddisfazione alle strategie mediatiche degli attuali player jihadisti, limitando la loro soddisfazione in termini di pubblicità delle loro azioni. È vero anche, però, che la cittadinanza ha diritto di sapere quali siano le minacce in cui si può imbattersi nella quotidianità.

L’informazione sulle minacce presenti in Italia, anche di natura straniera, sembra davvero ammutolita, seguendo un trend per cui è vietato individuare problemi e applicare il pensiero logico razionale, perché oggigiorno permettersi di ragionare in termini di causa-conseguenza significa meritarsi il bollino di complottisti. Quello che è certo è che non abbiamo la minima idea di chi possiamo incontrare per strada, semplicemente perché nessuno ne ha un record, o quanto meno non ne dà evidenza, come nessuno dà evidenza dell’impatto della componente straniera su pressoché tutte le fenomenologie criminali. Per rendersi conto del peso dell’impatto dell’immigrazione sulla sicurezza basta andare a leggere l’elenco dei procedimenti penali appeso fuori da una qualsiasi aula di Tribunale e notare i nomi degli imputati.

È molto più semplice, come nell’evento di Fara Vicentino, offrire in pasto al mainstream un profilo di presunta colpevolezza e imperizia degli operatori: questi operatori di polizia si fanno sottrarre l’arma, si sparano tra loro e uccidono senza alcuna ragione un povero fedele!

Più strumenti, ma più inibizioni: storia del force continuum senza force
Lo scenario dal quale è scaturito il conflitto a fuoco pare essere stato originato da un malfunzionamento del Taser. Il timore è che si stia avverando quanto alcuni temevano sin dall’inizio, da quando le amministrazioni di polizia hanno deciso di dotare gli operatori di nuovi strumenti: capsicum, Taser e qualcuno bolawrap.

Si tratta, beninteso, di strumenti di grande utilità, ognuno dei quali occupa un posto specifico nell’uso graduale della forza che si è mappato:

  • Bolawrap interviene subito dopo il tentativo di dissuasione verbale, richiede che l’operatore mantenga una distanza di sicurezza e consente, nel caso di mancata compliance del soggetto, di immobilizzarlo temporaneamente facilitando di fatto l’ammanettamento definitivo;
  • lo spray urticante interviene nello stesso segmento (subito dopo il tentativo di dissuasione verbale), ma impone una distanza decisamente più ravvicinata. Forse di grande utilità nell’esecuzione di un arresto programmato in ambito di polizia giudiziaria, non certo per autotutela in risposta a un tentativo di aggressione per chi si occupa di pronto intervento;
  • Taser, che è arma, interviene dopo ogni strumento di dissuasione e coazione fisica. E qui sorge una criticità. O meglio, sorge una criticità nella mentalità italiana di adozione di ogni nuovo strumento, che si va aggiungere a numerose altre.

La scala che rappresenta l’escalation nell’uso della forza da parte degli operatori non è stata rappresentata affinché in ogni intervento la si ripercorra tutta… individua esclusivamente l’approccio ritenuto più proporzionato rispetto a ciascun livello di pericolosità.

Questo significa due cose:

  1. che uno scenario ben possa presentarsi da subito come ad alto rischio e consentire (imporre!) un approccio da subito più duro, per strumenti impiegati e per tattica;
  2. che l’operatore sia preparato, comunque, a passare da un livello di gravità al successivo, così come al precedente, scalando o de-scalando nelle modalità di intervento.

A monte, però, la domanda è un’altra: come si può dare per scontata una capacità di lettura precisa della pericolosità di una situazione che, per sua natura, può cambiare velocissimamente? Anche per la valutazione degli scenari occorre una formazione specifica, sia incentrata sulle capacità di osservazione e comprensione degli accadimenti (situational awareness) sia sull’adeguamento dei comportamenti allo scenario (tecniche e tattiche).

Tornando nello specifico delle dotazioni, il vero problema è il seguente: ogni volta che viene “concessa” una cosa in realtà ne vengono sottratte tre. Da quando alle Forze dell’ordine è stato assegnato il Taser, pare che non esista più nient’altro. Pare che un arresto duro, poiché deve vincere una dura resistenza, non sia più consentito con guanti e, all’occorrenza, bastone. Pare che l’uso della pistola sia legittimato solo dopo essersi visti esplodere contro dei colpi di arma da fuoco da parte di qualche pazzo.

Così facendo, stiamo creando generazioni di operatori con sempre maggiori dotazioni ma con sempre più inibizioni nella gestione di uno scenario che, anziché avere oggi più possibilità di approccio in maggior sicurezza, costringe gli operatori a usare il Taser sempre e comunque, sperando che vada tutto bene.

Già, perché stiamo assistendo, tra l’altro, a un utilizzo del Taser in situazioni che stanno decisamente al di fuori delle indicazioni del produttore; in alcuni casi in “difetto di forza”, vale a dire al posto dell’arma da fuoco, in altri casi in “eccesso di forza”, vale a dire al posto di un arresto manuale. In entrambi i casi i rischi cadono sempre e solo sugli operatori, che si trovano ad avere tra le mani una pistola a impulsi elettrici quando questa non è sufficiente oppure, al contrario, a fulminare persone che si sarebbero potute contenere in altro modo, riducendo il rischio di lesioni.

Inoltre, in diverse occasioni si ha l’impressione che il suo impiego non venga studiato e addestrato all’interno della gestione di uno scenario che può cambiare velocemente, imponendo il passaggio da una tattica all’altra. E, si badi, si è detto volutamente da una tattica all’altra e non da uno strumento all’altro.

Tattiche e procedure
Si è letto che, riscontrata l’inefficacia dei dardi Taser lanciati all’indirizzo di Boubagura, lo stesso si sarebbe scagliato contro l’operatore ingaggiando una colluttazione, durante la quale gli ha poi sottratto l’arma. Si legge anche che il collega avrebbe trovato riparo dietro un camion, posizione dalla quale avrebbe poi sparato al soggetto in risposta ai suoi colpi. Probabilmente il segmento che sarebbe più interessante indagare sta proprio nei momenti tra il malfunzionamento del Taser e l’aggressione ai danni dell’operatore, del però quale la cronaca non dà conto per ovvie ragioni.

Quali erano i comportamenti previsti per il caso di malfunzionamento del Taser? Quali le distanze da ricercare? Quale l’approccio mappato e appreso come immediatamente successivo, se proprio si vuole parlare letteralmente di ripercorrere tutta l’escalation of force? Quante volte è stata data possibilità a questi operatori di addestrarsi in scenari che impongono di passare da un approccio all’altro, da una distanza all’altra e infine, perché no, anche da uno strumento all’altro?

La protezione dell’arma parte dalla fondina
Pochi anni fa pubblicammo una serie di contributi proprio sulla ritenzione e antisottrazione dell’arma, partendo proprio dal ruolo fondamentale della fondina. Consapevoli di questo dato, tutti accolsero con giusto favore l’arrivo di fondine in polimero, dotate di ritenzioni e che consentono al contempo una rapida estrazione dell’arma.

È certo, infatti, che nel momento in cui un soggetto aggredisce un operatore, questo deve porre tutta la sua attenzione e tutta la sua energia nel tentativo di vincere la resistenza dell’aggressore, non potendosi in alcun modo permettere di dedicare attenzione e gesti alla protezione dell’arma, se non a rischio di soccombere nell’aggressione.

Proprio da questa riflessione nasce l’esigenza che la fondina garantisca la ritenzione dell’arma almeno nei primi momenti. Nonostante questo, è vivo nel ricordo di tutti il dato sulla rottura delle fondine che gli stessi sindacati di polizia hanno a lungo denunciato nei primi momenti della loro introduzione e che ha avuto triste culmine nella tragedia della Questura di Trieste. Il tema presenta, infatti, alcune criticità specifiche:

  • In quali materiali vengono realizzate? Già, perché il materiale deve considerare la fatica che si accumula specialmente nei punti critici, come i passanti, a causa del porto quotidiano e tener conto del fatto che la resistenza allo strappo deve essere misurata e poi garantita non a prodotto nuovo, ma con fatica già accumulata dal materiale. Quali sono i limiti di accumulo di fatica e la residua resistenza allo strappo?
  • Perché non esistono standard tecnici costruttivi? In molti ambiti che impattano sulla sicurezza del lavoratore i manufatti devono essere realizzati secondo parametri stabiliti da norme, almeno norme tecniche ad adozione volontaria, ma che rappresentano quanto meno un riferimento al di sotto del quale il mercato non vorrà più andare.
  • Perché non sono soggette a scadenza? Per le stesse ragioni, molti prodotti presentano una scadenza, anche nel caso di mancato utilizzo, figuriamoci dopo aver subito lo stress, anche solo di essere state indossate per esempio in auto e dunque costrette a pieghe che caricano davvero di fatica, giorno dopo giorno, punti precisi del prodotto.
  • Quale formazione ricevono gli operatori circa le migliori modalità di porto quotidiano della fondina, a sua tutela, e di protezione dell’arma?

Nessuno è esente da responsabilità
Tranne, ci viene da dire, gli operatori, che si trovano a dover gestire scenari sempre più complessi e casistiche criminali sempre diverse e mutevoli, spesso dovendo sopperire con esperienza professionale e doti personali alla mancanza di formazione, ma soprattutto alla sottile, subdola e progressiva erosione di tutela nei loro confronti.

L’inibizione nei confronti dell’uso della forza viene inoculata, infatti, in maniera davvero strisciante e indiretta. Tramite l’opinione pubblica, che condanna a priori ogni utilizzo della forza e crea categorie ideologiche di soggetti “intoccabili” a prescindere e per definizione anche quando, al pari di ogni altro essere umano, delinquono e rappresentano una minaccia per la collettività. Tramite un uso dello strumento penale, che sembra punire o comunque gettare discredito solo in una direzione, quella dell’operatore che sia stato costretto all’extrema ratio dell’uso della forza, come del cittadino che si sia dovuto difendere da un’aggressione.

Intanto un operatore di polizia è rimasto colpito da un proiettile, un altro ha subito un’aggressione e la sottrazione dell’arma, un altro ancora è indagato per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi, mentre una intera cittadina ha assistito ad una sparatoria degna dei migliori film western.

Ma che problema c’è? Non serve mappare i rischi, studiare le minacce, ipotizzare approcci preventivi ed eventuali reazioni in escalation. Cari amici del comparto sicurezza, oggi avete il Taser, cosa volete di più? Suona tanto di “armiamoci e partite”…