Una condanna di vent’anni fa non può costare il porto d’armi

Il Tar della Lombardia ha accolto il ricorso di un cittadino che si è visto rifiutare il rilascio del porto di fucile per Tiro a volo in seguito a una condanna per danneggiamento avuta vent’anni prima, appena maggiorenne, e non menzionata all'atto dell'istanza. Si conferma che la valutazione sulla personalità del richiedente deve essere approfondita e puntuale

Con sentenza n. 2927 pubblicata il 28 dicembre 2021, il Tar della Lombardia ha accolto il ricorso di un cittadino che si era visto rifiutare il rilascio del porto di fucile per Tiro a volo dalla questura di Varese, in quanto giudicato non sufficientemente affidabile in relazione a una condanna per danneggiamento (pena pecuniaria e non menzione sul casellario giudiziario) inflittagli vent’anni prima, quando era appena maggiorenne. La questura contestava anche la falsità per non aver menzionato la condanna all’atto della richiesta del porto d’armi.

Il tribunale ha accolto il ricorso, argomentando che “In presenza di una condanna definitiva per un reato che il legislatore non ha considerato come ostativo al rilascio del titolo di polizia e dell’irrogazione di una lieve pena pecuniaria, interamente pagata, l’Amministrazione avrebbe pertanto dovuto individuare degli indicatori concreti dell’attuale inaffidabilità del richiedente. E’ vero che il giudizio di inaffidabilità del ricorrente nell’uso corretto delle armi può fondarsi anche su fatti risalenti nel tempo, atteso che il mero decorso del tempo è elemento neutro, di per sé non sufficiente a ridurre la portata offensiva delle condotte criminose ed a ripristinare il rapporto di fiducia che l’Amministrazione deve poter riporre in coloro che aspirano ad essere autorizzati a portare le armi. Il giudizio prognostico di inaffidabilità, proprio perché finalizzato a prevedere gli sviluppi futuri della condotta del richiedente, deve essere elaborato tenendo in considerazione non solo le condotte passate ma tutti gli elementi riscontrabili al momento della sua formulazione. Ove l’Amministrazione ritenga pertanto di fondare il giudizio prognostico sfavorevole su fatti di reato commessi molti anni prima rispetto alla presentazione dell’istanza, ha l’onere di valutare non solo la concreta gravità degli stessi ma anche se la loro portata offensiva sia ancora attuale e se gli stessi continuino a spiegare riflessi negativi sulla personalità del soggetto. I principi di proporzionalità e di ragionevolezza dell’azione amministrativa impongono dunque all’Amministrazione di considerare rilevanti, ai fini del diniego della licenza di porto delle armi, le condanne riportate dal richiedente solo ove esse siano sintomatiche, per la loro gravità, per le modalità di commissione o per gli eventuali effetti indiretti sulla personalità del soggetto, di un’attuale inaffidabilità nel buon uso delle armi. La Questura di Varese si è invece limitata a riferire la condanna definitiva per il reato di danneggiamento, senza esplicitare le motivazioni, espressamente stimolate dal ricorrente con la produzione delle osservazioni procedimentali, per cui la stessa, pur essendo stata commessa venti anni prima, in una condizione di presumibile disagio giovanile, non essendo stata seguita da altre condanne o da segnalazioni di una condotta di vita improntata all’illegalità, <<non consente di escludere la possibilità di un abuso delle armi>>”.

In relazione all’accusa di falso, i giudici hanno considerato che “l’attualità dell’inaffidabilità del ricorrente nel non abuso delle armi non si può evincere dalla circostanza che questi abbia omesso di dichiarare, in sede di istanza di rilascio della licenza di porto di fucile, di aver riportato una condanna penale definitiva per il reato di danneggiamento. La Questura non ha infatti accertato se la condotta reticente tenuta dal ricorrente sia stata dolosa e dunque predisposta per eludere la normativa di settore o, come sostiene il ricorrente, sia stata commessa in assoluta buona fede: l’esecuzione della pena pecuniaria in seguito all’avvenuto pagamento e la non menzione del decreto penale di condanna nel casellario giudiziale sono infatti elementi astrattamente idonei a giustificare la buona fede del ricorrente. La Questura avrebbe comunque dovuto esplicitare anche le ragioni per cui la commissione di una condotta di falsità ideologica in atto pubblico sia idonea a minare l’affidabilità del ricorrente nel non abuso delle armi, mediante un’indagine complessiva sulla sua personalità, desumibile dalla condotta di vita tenuta successivamente alla condanna”.

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Sentenza Varese