Qual è stata la prima polimerica della storia?

Oggi le armi con telaio in polimero, più spesso acciaio e polimero, vanno per la maggiore e questo vale in particolar modo per le pistole semiautomatiche, ma stanno cominciando a proliferare anche revolver e carabine semiautomatiche di grosso calibro con queste caratteristiche. La maggior parte degli appassionati pensa che la prima arma da fuoco realizzata con fusto in polimero sia stata la Glock, è senz’altro vero che l’arma austriaca sia stata la prima polimerica ad aver raggiunto un successo globale di vendite e una produzione in grande serie, ma in effetti la prima pistola semiautomatica con fusto polimerico (coadiuvata da una gondola interna in acciaio) fu la Heckler & Koch Vp70, realizzata oltre un decennio prima rispetto alla Glock. Evadendo però dallo specifico segmento delle pistole semiautomatiche (e automatiche, visto che la Vp70 poteva anche sparare a raffica controllata di tre colpi, fissando l’apposito calciolo), c’è un’arma che le surclassa abbondantemente, meritandosi la palma della prima arma da fuoco realizzata con telaio, calciatura e astina polimerici. Stiamo parlando della Remington Nylon 66, una agile carabinetta semiautomatica in calibro .22 lr che l’azienda statunitense presentò sul mercato addirittura nel 1959 e produsse fino al 1989 in oltre un milione di esemplari.

La nascita di un mito
Remington fu la prima azienda in assoluto a optare per una soluzione così radicale, inedita per quei tempi, al fine di realizzare un’arma per il tiro ludico e la piccola caccia che fosse il più economica possibile: ricorrere alle moderne (futuristiche per l’epoca) materie plastiche. Per ottenere questo risultato si avvalse della collaborazione della più importante azienda dell’epoca nel settore dei polimeri, la DuPont, la quale realizzò proprio per questo scopo un nuovo materiale, derivato dal Nylon, denominato Zytel 101, che presentava i necessari requisiti di resistenza, rigidità e durata nel tempo. Con questo materiale fu realizzato il telaio portante, costituito dal castello vero e proprio, dalla calciatura e dall’astina, in un pezzo monoblocco sul quale era fissata la canna, scorreva l’otturatore (con chiusura labile) con la massa battente e intorno al quale era fissato, mediante due viti trasversali, un coperchio in lamiera che fungeva da finestra di espulsione, supporto per la tacca di mira regolabile e guida a coda di rondine per il montaggio di un eventuale cannocchiale. L’alimentazione era costituita da un serbatoio tubolare nel calcio, della capacità di 14 cartucce. Un progetto del genere, per quegli anni, rappresentò indubbiamente una scommessa rischiosa da parte di Remington, ma fu premiata dal pubblico, che rispose entusiasticamente. in particolare furono apprezzate le caratteristiche autolubrificanti del polimero impiegato, che garantivano un funzionamento affidabile dell’arma anche con poca manutenzione e in climi rigidi, come l’Alaska. La versione standard ha una tonalità marroncina con striature “effetto legno”, ma sono state realizzate varianti con un polimero di colore nero e verde, così come sono state realizzate anche varianti con caricatore prismatico amovibile della capacità di 10 cartucce (ritenuto, tuttavia, non altrettanto affidabile di quello tubolare). la canna era lunga 500 mm, per una lunghezza totale di 980 mm. Con l’esperienza della Nylon 66, Remington cominciò a proporre calciature polimeriche anche per carabine bolt-action di tipo convenzionale, aprendo così di fatto la strada alle moderne armi “synthetic”.