Porto per difesa personale: quando i prefetti non sono d’accordo

Con sentenza n. 14137 del 22 settembre 2023, la sezione prima ter del Tar del Lazio si è occupata di una questione abbastanza inedita e curiosa, relativa a un cittadino che aveva richiesto il rinnovo del porto di pistola per difesa personale, proprio nel momento in cui si stava verificando un avvicendamento a capo della prefettura. Il prefetto uscente, in particolare, “già cessato dalla carica, rappresentava all’odierno ricorrente che, in ragione della posizione di quest’ultimo, aveva ritenuto la sua istanza meritevole di accoglimento, lasciando l’incarico ad un funzionario di provvedere alla consegna del relativo provvedimento previo deposito del certificato medico che nel frattempo, visti i tempi dell’istruttoria era scaduto”.

Il prefetto subentrante, invece, ha respinto l’istanza di rinnovo della licenza di porto di pistola per difesa personale, determinando il ricorso da parte del cittadino.

I giudici del Tar, tuttavia, hanno osservato che “diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, l’indicazione di volontà del precedente Prefetto non possa assurgere al rango di provvedimento decisorio e conclusivo di un procedimento amministrativo che si è concretamente completato in un momento successivo alla cessazione della funzione in capo allo stesso, con l’acquisizione del nuovo certificato medico. La suddetta intenzione del Prefetto uscente appare, quindi, più correttamente qualificabile come atto dal contenuto sostanzialmente interlocutorio, che esprimeva una valutazione la quale, poi, è stata legittimamente rielaborata e superata nel corso del procedimento, non essendo connotata né da efficacia esterna né dal carattere della definitività (cfr. in tal senso T.A.R. Lazio, sez. II, 20 febbraio 2020, n. 2248). La stessa, pertanto, non poteva e non può ritenersi tale da ingenerare un legittimo affidamento in capo al richiedente. Del resto, come ha avuto occasione di affermare la stessa giurisprudenza formatasi nell’ambito della materia del rilascio o del rinnovo del porto d’armi, in questa materia una situazione di legittimo affidamento non è idonea a formarsi nemmeno a fronte di plurimi rinnovi “… posto che ad ogni rinnovo del titolo è indispensabile ripetere l’accertamento” (cfr. ex multis T.A.R. Lombardia, sez. I, 13 giugno 2022, n. 596). Ne deriva che, se non può riconoscersi l’insorgenza di un legittimo affidamento a fronte della sussistenza di un precedente atto di natura provvedimentale che ravvisa le condizioni per il rilascio del titolo, a fortiori non può ritenersi formato un legittimo affidamento a fronte di un atto meramente interno che manca delle caratteristiche proprie di un provvedimento. Ma anche ove si volesse in ipotesi riconoscere natura provvedimentale alla manifestazione di volontà del Prefetto uscente, ritenendo integrati tutti gli elementi prescritti per la sua esistenza, tale provvedimento non potrebbe in ogni caso considerarsi “efficace”, perché sottoposto – come specificato dallo stesso Prefetto uscente (“… lasciando l’incarico al funzionario Xxxxxxxxxx di consegnarglielo previo deposito del certificato medico …”) – alla duplice condizione sospensiva degli effetti, rappresentata dal deposito del certificato medico e dalla successiva consegna da parte del funzionario incaricato. Conseguentemente, anche volendo ritenere soddisfatta la prima condizione, avendo il richiedente prodotto il suddetto certificato – sebbene in un momento in cui il Prefetto uscente era ormai cessato dalla carica – non può in ogni caso considerarsi integrata la seconda. Invero, è la comunicazione formale all’istante che, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, costituisce il momento di produzione piena degli effetti da parte del provvedimento di rinnovo, concernendo la cosiddetta “fase integrativa dell’efficacia”. Dunque, deve ritenersi che solo allorquando entrambe le condizioni si fossero verificate, il provvedimento firmato dal Prefetto uscente avrebbe potuto acquistare piena efficacia e se ne sarebbero realizzati gli effetti. Conseguentemente, anche a volersi porre nella prospettiva del ricorrente, l’atto impugnato – piuttosto che atteggiarsi a provvedimento di secondo grado di annullamento d’ufficio – resta comunque riconducibile al classico paradigma degli atti di “mero ritiro”, essendo intervenuto in una fase procedimentale anteriore al momento di acquisizione dell’efficacia del provvedimento firmato dal Prefetto uscente. Secondo la migliore dottrina e la giurisprudenza ormai consolidata (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 4 febbraio 2022 n. 790), il “mero ritiro” ha, infatti, ad oggetto un atto improduttivo di effetti o perché privo di un requisito di efficacia o perché preparatorio di un procedimento che non si è ancora concluso. Dalla classificazione del provvedimento impugnato come atto di “mero ritiro” deriva che lo stesso sia regolato da un regime diverso da quello che contraddistingue gli atti di ritiro in senso proprio (che costituiscono espressione di autotutela decisoria), dal momento che l’inefficacia originaria dell’atto revocato non impone all’Amministrazione di valutare l’incidenza esterna delle sue precedenti volontà, in relazione all’affidamento eventualmente ingenerato nei terzi ed alla concreta valenza dell’interesse pubblico (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 2 febbraio 2009 n. 526 e 18 settembre 2002 n. 4751; così anche T.A.R. Napoli, sez. II, 11 aprile 2017, n. 1980)”.