L’Ufficio del massimario della Corte di Cassazione, organismo composto da magistrati che si occupa dell’analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, ha predisposto una relazione che illustra i contenuti del decreto sicurezza, recentemente convertito in legge. Per quanto specificamente attiene alla materia da noi trattata, ci siamo soffermati sull’analisi compiuta dai giudici sull’articolo 28 del provvedimento, quello che consente (meglio, consentirebbe) agli operatori delle forze dell’ordine con qualifica di agenti di pubblica sicurezza di portare fuori servizio un’arma personale, diversa da quella di ordinanza.
Le dichiarazioni riportate dai giudici sono a dir poco sorprendenti, in quanto evidentemente di tipo prettamente politico anziché giuridico e con evidenti criticità rispetto alla lettura da un lato della normativa previgente e dall’altro di quello che è stato il succedersi degli accadimenti storici degli ultimi 10 anni.
La prima cosa che balza agli occhi è che i giudici non si sono minimamente preoccupati di analizzare la norma sotto il profilo dell’incidenza del secondo comma dell’articolo 28 del decreto sicurezza, quello che prevede l’emanazione di un Dpr per regolamentare il porto dell’arma personale, rispetto all’immediata esecutività (o meno) del primo comma (quello che appunto autorizza, in teoria, il porto dell’arma personale fuori servizio).
Al posto di fornire risposte circostanziate a questa questione, che sarebbe in effetti fondamentale dal punto di vista prettamente giuridico (e conseguentemente penale…), i giudici si lanciano in considerazioni prettamente politiche estrapolate dalle dichiarazioni rese da diversi giuristi, in occasione delle audizioni svolte alla Camera dei deputati, nelle preposte commissioni, durante l’iter di formazione del provvedimento. Nella relazione si legge innanzi tutto che “le prime reazioni conseguenti all’introduzione nel nostro ordinamento della descritta previsione sono state di grande preoccupazione, in quanto l’intervento normativo costituirebbe – secondo taluno degli auditi – un “incentivo alla diffusione delle armi in circolazione” che “comporta dei rischi collegati a una maggiore diffusione di armi da fuoco, tanto nello spazio pubblico quanto in ambiente domestico”.
Le parole sembrano riecheggiare quelle espresse poche settimane or sono da una nota associazione anti-armi, in realtà sono di un professore universitario audito in commissione, il quale avrebbe (sempre secondo quanto affermato nella relazione) aggiunto che “gli agenti, in effetti, essendo già idonei a possedere un’arma di ordinanza, già oggi non hanno alcuna difficoltà a ottenere il porto d’armi (beninteso per difesa personale e non già per proseguire fuori servizio i propri compiti di pubblica sicurezza). L’introduzione di questa norma avrebbe dunque l’unico effetto di incentivare la circolazione non controllata di armi private, con un incremento di rischi per la sicurezza pubblica”.
Dobbiamo smentire, statistiche ministeriali alla mano, recisamente quanto affermato dal professore: l’esigenza manifestata dagli agenti di pubblica sicurezza di essere autorizzati ex lege a portare fuori servizio un’arma personale diversa da quella d’ordinanza (e più facilmente occultabile rispetto a quest’ultima) deriva proprio dalla virtuale impossibilità per gli operatori di vedersi rilasciare il porto di pistola per difesa personale. Questa circostanza peraltro è ben nota da anni e sintetizzata da decine di sentenze dei tribunali amministrativi regionali, che hanno negato accoglimento ai ricorsi degli operatori nei confronti delle prefetture. Al di là di questo aspetto, il fatto che gli agenti di pubblica sicurezza fuori servizio possano portare un’arma (d’ordinanza, fino a oggi) è legato alla loro “qualità permanente”, la quale implica che nel momento in cui assistono, anche fuori servizio, alla commissione di un crimine, hanno non solo facoltà, ma anche obbligo di intervenire. Quindi, appunto, il porto dell’arma fuori servizio non obbedisce solo a esigenze di difesa personale ma anche all’espletamento di compiti di pubblica sicurezza.
Non si capisce poi quale dovrebbe essere l’aumento di pericolosità, sia dal punto di vista pubblico, sia a maggior ragione dal punto di vista domestico, nel fornire un’arma… a chi ha già un’arma. Tra l’altro questo è quanto già accade da decenni con gli ufficiali di pubblica sicurezza (che sono, comunque, già migliaia di cittadini italiani) senza che a oggi nessuno abbia avuto nulla da ridire. Per non parlare dei magistrati stessi…
L’aspetto più sbalorditivo nella relazione della Cassazione è rappresentato dal passaggio seguente: “In senso critico si è obiettato che la disposizione in commento, con la quale si autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare – senza licenza quando non sono in servizio – alcune tipologie di armi (arma lunga da fuoco, rivoltella e pistola di qualsiasi misura, bastoni animati con lama di lunghezza inferiore a 65 cm.), non ha una plausibile ratio politico-criminale, non è legata a fattori contingenti di necessità/urgenza e non si spiega neanche nell’ottica di una sicurezza intesa a mantenere l’ordine legale costituito”.
Anche in questo caso, guardando a quello che è stato lo “storico” della vicenda, non possiamo che dissentire recisamente: la ratio politico-criminale e “l’ottica di una sicurezza intesa a mantenere l’ordine legale costituito” sono determinate dal fatto che in più occasioni, al verificarsi di specifiche contingenze (per esempio) di rischio terroristico, il capo della polizia pro tempore ha sollecitato gli agenti di pubblica sicurezza a portare con sé la pistola anche fuori servizio, proprio al fine di esercitare un capillare sistema di sorveglianza diffusa e di pronto intervento al verificarsi di situazioni criminali potenzialmente gravissime negli effetti per la cittadinanza; nel momento in cui, tuttavia, l’arma di servizio risulta pressoché inoccultabile sotto gli abiti civili (cosa che è vera in particolare proprio durante questi mesi estivi), appare evidente la difficoltà oggettiva che devono affrontare gli operatori stessi e la palese contraddizione in termini. D’altro canto appare altrettanto evidente l’impossibilità pratica, economica e logistica per lo Stato, di dotare gli operatori di due armi ciascuno: una di formato più grande per il porto in servizio in fondina esterna, l’altra più compatta per il porto fuori servizio.
Ancor più sbalorditiva, specialmente per il contrasto evidente con il dettato normativo dell’articolo 73 del regolamento di esecuzione al Tulps, l’affermazione in merito al fatto che “Ferma restando la piena legittimità del porto delle armi da parte degli agenti di pubblica sicurezza quando sono in servizio, l’estensione agli agenti di pubblica sicurezza di porto ed uso di armi e strumenti atti a offendere anche fuori dal servizio e senza nessun tipo di controllo si spiega solo nella logica dello stato di polizia”.
In realtà è già così, limitatamente all’arma d’ordinanza, “solo” da 85 anni…
La chiosa finale afferma che “vi sono state anche voci che hanno sostenuto che la previsione in commento, al contrario di quanto promette di fare l’intervento legislativo, mette a repentaglio la sicurezza delle persone, in quanto si favorisce in tal modo la proliferazione delle armi nelle strade e, più in generale, nei luoghi pubblici, consentendo a circa 300 mila appartenenti alle forze dell’ordine di usare un’altra arma, diversa da quella di servizio, mettendo a rischio la sicurezza delle persone, in una deriva del modello securitario che tenderebbe così ad assomigliare sempre più a quello statunitense”.
Per leggere la relazione del Massimario (la parte relativa all’articolo 28 del decreto sicurezza è alle pagine 88 e 89) CLICCA sull’allegato qui sotto.