L’attentato di Gerusalemme e il first responder ucciso

Hamas mantiene le promesse, o meglio prosegue nell’unica strategia di gestione di un confitto impari che può permettersi: la dimensione asimmetrica.

Prosegue dunque l’escalation nel “valore” degli obiettivi che sceglie, arrivando ad attaccare Gerusalemme nell’unico modo in cui può permettersi di farlo: l’azione di due fratelli che conducono un attacco suicida sparando alla fermata di un autobus.

A tamponare la loro azione, ancora una volta, un cittadino presente all’evento che, portando un’arma, è intervenuto…. Ma andiamo con ordine.

Conflitti asimmetrici e scelta dei target
Come è ovvio, la dimensione asimmetrica, fatta di guerriglia e attentati, è l’unico strumento a disposizione di movimenti privi di una struttura statale e, in definitiva, di proprie forze armate strutturate. Non a caso, infatti, l’organizzazione di attentati, in varie forme e dimensioni, è lo strumento da sempre utilizzato da movimenti terroristici, i quali tipicamente hanno come obiettivo il rovesciamento di un ordine costituito per poterlo sostituire con altri modelli di governo. Storicamente, poi, la dimensione asimmetrica è l’unica affrontabile anche per movimenti di resistenza interna contro regimi osteggiati dalle popolazioni o in caso di occupazione, e il nostro Paese nel bene e nel male ne sa qualcosa.

Sia come sia, chi non può permettersi uomini e mezzi per campagne simmetriche si trova a scegliere obiettivi da colpire con piccole azioni, che non richiedono grandi capacità militari. Dunque, la scelta degli obiettivi deve presentare il massimo rapporto costi/benefici: in termini di costo, come detto, dovranno pensare al minimo impiego di uomini e mezzi e in termini di benefici dovranno pensare a massimizzare il danno per il nemico. A seconda dei mezzi a disposizione possono scegliere un target e a seconda del target colpito possono ambire a creare un dato livello di danno: in termini di vittime, danni a strutture e un vero e proprio danno di immagine e quindi reputazionale.

Gli obiettivi sensibili istituzionali, per esempio, sono irraggiungibili per la portata delle azioni di simili organizzazioni, almeno in termini di attacchi tesi a conquistarli o a distruggerli, soprattutto per il livello di protezione di cui godono. Questo vale sia per obiettivi sensibili in senso stretto, come sedi di governo e politiche, installazioni militari eccetera, sia per infrastrutture critiche di importanza strategica (critical infrastructure), come reti energetiche, comunicazioni, trasporti e così via. Si tratta di obiettivi altamente paganti (high-value target) che restano però irraggiungibili, se non per ipotesi di eventuali atti di mera portata simbolica, che per contro hanno però anche una ben più alta possibilità di essere intercettati dall’intelligence già dalle fasi preparatorie.

Esiste poi la possibilità di attaccare un luogo ad alta frequentazione, nel quale l’uso di esplosivi, per esempio, può determinare un numero elevato di vittime. Certo è, però, che non in tutto il mondo è facile approvvigionarsi di esplosivi, costringendo spesso a fabbricare in casa miscele altamente instabili, difficili da produrre e trasportare, come a lungo accaduto nel far east. Resta l’ipotesi di un attacco con armi da fuoco, i cui esiti però rischierebbero di essere notevolmente compromessi dalla pronta reazione delle forze di sicurezza sempre presenti (seppur in misura variabile nel mondo) a presidio di luoghi ad altissima frequentazione. Il bilancio costi/benefici è tassativo.

I soft target
È così, dunque, che un’azione supportata dall’uso di scarsi mezzi, pochi player, privi di particolare preparazione e perizia può massimizzare la sua efficacia solo se condotta contro obiettivi non presidiati e dunque…. luoghi qualsiasi, purché vi sia la presenza di qualcuno da colpire.

Non a caso, infatti, tutto lo jihad degli ultimi decenni ha perseguito questa strada fatta di attacchi poco strutturati, ma in grado di impressionare un Paese intero. Uccisioni di cittadini indifesi, aggressioni simboliche a personale in divisa, colpito spesso individualmente, uso di coltelli in grado di versare una grande quantità di sangue da proiettare nel web. L’obiettivo è colpire simbolicamente il cuore di un sistema nei nervi più scoperti che ha… i cittadini.

Ed ecco dunque che mercati, ristoranti e bar, piazze, parchi giochi, scuole e fermate dell’autobus diventano teatri perfetti per un attacco, riportando alla mente le parole dell’allora segretario di stato Usa Condoleezza Rice, quando affermò che ogni cittadino statunitense era da considerare un obiettivo sensibile….

Certo, si dirà che a Gerusalemme tutto è storicamente presidiato da forze di sicurezza per ovvie ragioni. Per quanto capillare possa essere il presidio, però, la presenza delle forze di sicurezza sul territorio ha sempre i suoi limiti.

Gestire il rischio attentato
Davanti a strategie di scelta dei target come quella appena riassunta, è evidente la disparità tra chi sceglie dove, quando e come attaccherà e chi, invece, non può predirlo e si trova a dover esclusivamente affrontare l’evento cercando di minimizzarne per quanto possibile gli effetti.

Gli studi di security e gestione del rischio ci insegnano che: R (rischio) = P (probabilità) x D (danno) e dunque che il Rischio è il prodotto della Probabilità di accadimento di un evento per i Danni che questo può provocare nel momento in cui si verifica, dato che la probabilità non può mai essere azzerata del tutto.

Questa considerazione ci insegna che esistono due fasi nella gestione di un rischio:

  • una prima fase, in cui è possibile fare prevenzione cercando senz’altro di ridurre la probabilità di accadimento di un evento e cercando di capire, ora per allora, come contenere al minimo i danni;
  • una seconda fase, in cui occorre prepararsi alla vera e propria gestione dell’evento, nel caso in cui dovesse verificarsi.

Riguardo al rischio attentato, per esempio, la presenza di un presidio di sicurezza abbassa certamente la probabilità che quel sito venga scelto come target, ma i soft target sono tali proprio perché privi di presidi.

Un attentato con un’attività preparatoria intensa può essere, poi, intercettato dall’intelligence: è chiaro, però, che davanti a eventi privi di grande preparazione diventa difficile abbassare davvero la probabilità.

Non resta, dunque, che concentrarsi sul contenimento dei danni.

Ancora una volta il first responder è stato un cittadino presente all’evento
Nell’attentato alla fermata dell’autobus di Gerusalemme, i fratelli Murad e Ibrahim Namer, di 38 e 30 anni e con precedenti per terrorismo, si sono avvicinati a una fermata dell’autobus con la loro auto e dopo esserne scesi hanno aperto il fuoco mietendo 3 vittime, che hanno avuto la sola sfortuna di essere le prime in cui si sono imbattuti.

C’è da dire che in un luogo così altamente presidiato come Gerusalemme e in un momento storico come questo, l’arrivo e la risposta delle forze di sicurezza sono stato davvero immediati.

Eppure, anche in quelle circostanze, i due fratelli sono stati fermati dall’intervento di un cittadino armato, il quale ha di fatto impedito che i due assalitori si rimettessero alla guida e provassero a darsi alla fuga dopo aver sparato.

Come abbiamo ripetuto in numerosissime occasioni, i primi soggetti che sono davvero nelle condizioni di intervenire sono le persone di fatto già presenti sul posto al momento dell’evento e in un numero incalcolabile di eventi sono stati proprio i presenti a reagire nelle immediatezze e a contenere il numero di vittime che, altrimenti, in molti casi sarebbe potuto essere davvero molto più alto.

E questo è ancora più vero nei casi e nei territori in cui i tempi di intervento dei soccorritori istituzionali si allungano, concedendo più tempo agli assalitori che, come si è detto, tengono spesso in considerazione anche i tempi di intervento delle forze di sicurezza nel momento in cui devono scegliere un bersaglio.

Il tema è complesso e delicato e, come spesso accade, divide il mondo in due schieramenti netti, tra chi militarizzerebbe anche gli asili e chi si oppone tout-court alla diffusione delle armi e si limita a sperare che non accada mai proprio a lui.

Rispetto a eventi che hanno una casistica apprezzabile, la circostanza è davvero tenuta in grande considerazione. Basti pensare al fenomeno active shooter nelle scuole Usa e nell’ipotesi, a più riprese cavalcata, non solo di presidiarle con personale di sicurezza armato, ma addirittura di fornire armi agli insegnanti, con le quali poter contrastare sul nascere eventuali uccisioni di massa.

O, ancora, al fatto che proprio il ministro israeliano per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, ha insistito sull’importanza della politica di “distribuzione delle armi” ai civili, concetto subito ribadito dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che si è detto felice di “continuare nella distribuzione di armi ai civili perché è una misura che si è dimostrata valida molte volte nella guerra contro il terrorismo”.

Cittadini contro cittadini
Fin qui tutto bene. Molti attacchi in occidente sono stati soffocati da cittadini presenti all’evento, ancora più efficacemente se armati.

Israele, però, non è in Occidente e il cortocircuito ha generato una scossa davvero forte. Le immagini in circolazione mostrano, infatti, proprio il cittadino armato avvicinarsi all’auto dei due assalitori mentre tentano la fuga e poi sparare al conducente. Subito dopo giungono verso l’auto i militari nel frattempo intervenuti. Il civile lascia cadere l’arma, si inginocchia e alza le mani, provando anche a togliersi la giacca, forse nel tentativo di mostrare di non essere ulteriormente armato.

In ogni caso non lo sapremo mai, perché l’uomo è stato immediatamente ucciso dai militari stessi…

Perché? Perché si è avverato l’incubo di ogni buon cittadino, armato e non, di ogni poliziotto o militare in borghese mentre fa la spesa, di ogni buon padre di famiglia: e se mentre intervengo per contenere un’emergenza i soccorritori istituzionali non riescono a comprendere il mio ruolo e mi sparano?

Il pensiero è comune e fondato. Non è così scontato, infatti, che chi interviene nel momento in cui è in corso una sparatoria possa davvero distinguere buoni e cattivi. Nel caso di Gerusalemme, però, l’uomo era palesemente collaborativo e non ostile, disarmato e in ginocchio. Viene solo da pensare che in un clima di tensione quale quello israeliano, il gran numero di operatori che presidia le strade faccia ricorso all’uso delle armi con un discrimine sempre minore, forse con i nervi a fior di pelle e non per forza dotato di una preparazione che lo metta in condizioni di vedere, decidere, agire.

Tutto umano e comprensibile, per carità. A meno che il bersagliare chiunque abbia un’arma in mano non diventi una policy, una regola d’ingaggio. Non è possibile, infatti, da un lato armare i cittadini affinché intervengano in caso di attacco per poi sparare a vista a chiunque abbia in mano un’arma!

Il dubbio cresce quando si sente di militari israeliani che “neutralizzano” un contadino a un posto di blocco e dell’uccisione di due bambini in Gisgiordania il giorno prima, che Hamas avrebbe usato come pretesto per il suo attacco alla fermata del bus.

Certo, odio alimenta odio e tensione alimenta tensione, in una spirale dalla quale, una volta innescata, è davvero difficile uscire.

Ma cosa ne resta dei cittadini di valore pronti a intervenire durante un attacco terroristico, un tentativo di sequestro o una violenza contro una donna? Cosa ne è della strategia di distribuire armi in modo capillare per una risposta immediata se poi si spara al first responder?

Lo stesso premier Netanyahu, non più tardi del 25 ottobre scorso ha dichiarato che ogni membro di Hamas deve essere ucciso sopra la terra e sotto la terra, ricordando la profezia di Isaia (Isaia: 60) secondo la quale il popolo di Israele sottometterà tutte le altre nazioni e sterminerà quelle che non vi si sottometteranno.

Nessun intento di lettura politica, per carità, ma solo l’intenzione di portare l’attenzione sulla parola “popolo”. Siamo proprio certi che ogni cosa accada per proteggere il popolo? Per aiutare il popolo?

Ovviamente, attendiamo di apprendere che l’uomo ucciso alla fermata del bus dai militari era un terzo assalitore e del relativo happy end. Ciò non toglie, però che vada spesa qualche riflessione. I cittadini sono il bersaglio e i cittadini sono, normalmente, la risposta, almeno la più immediata.

I cittadini devono temere gli assalitori e le forze di sicurezza, nella difficoltà che hanno queste ultime nel discriminare immediatamente i presenti, anche tenendo presente che il primo intervento facilmente avverrà ad opera di personale che non per forza è dotato di preparazione specifica in questo senso.

I cittadini devono sempre aiutarsi nel passare informazioni di quartiere e anche nel proteggersi in scenari come questo, tenendo però sempre a mente la necessità di farsi riconoscere e mostrarsi non ostili all’arrivo dei soccorsi.

I cittadini devono essere consapevoli che, in qualche caso, possono essere ritenuti sacrificabili dai rispettivi governanti e che spesso questi ultimi prendono decisioni che prescindono del tutto dal benessere del “popolo”. In Italia, per ora, dovrebbe bastare.