La fiction su Francesco Baracca che divide gli appassionati

Piccole speranze: quest’anno, il film Comandante su Salvatore Todaro, visto più come il capo di una Ong-salva migranti che come un combattente, aveva quantomeno avuto il merito di dire “qualcosa di militare”, (edulcoratamente) positivo sui nostri eroi di guerra.

Ora si è fatto un altro passetto avanti, con la docu-fiction dedicata a Francesco Baracca diretta per la Rai da Mario Vitale, in occasione dei 100 anni dell’Aeronautica militare.

Lentamente, sembra che la lancetta dell’orgoglio patrio, da 80 anni fissa sul “low” rosso per demerito della solita egemonia culturale antinazionale-antimilitarista, stia muovendo qualche timido sussulto verso la zona gialla, in una impossibile tensione verso il verde.

Già il titolo, I cacciatori del cielo, ci dona un brivido di politicamente scorretto: “cacciatori”? Possibile? Eppure, la fiction ha riscosso un indiscutibile successo, con 3 milioni e mezzo di spettatori (3.447.333) pari a uno share del 18,33.

Un prodotto nazional-popolare, ovviamente, con un 55enne Beppe Fiorello nei panni del 30enne eroe di Lugo di Romagna, ma non si può avere tutto: si serve la Patria anche con una goccia di botox.

A parte qualche inevitabile smielata pacifistoide, a parte qualche incoerenza uniformologica, il prodotto è stato obiettivamente accettabile, ottimo se inquadrato nel nostro attuale contesto valoriale-culturale: “beati monoculi in terra caecorum”.

Fossimo in un Paese normale, il Nostro avrebbe meritato cento volte di più: è stato il più grande pilota militare italiano: quando chiuse la sua esistenza terrena, precipitando nei boschi di Treviso il 19 giugno 1918, aveva al suo attivo un record di 34 velivoli nemici distrutti.

È vero che fosse solito ripetere: “È all’apparecchio che io miro, non all’uomo”. In un’epoca come la nostra, nella quale il pilota militare paracadutatosi in territorio ostile viene quasi sempre linciato ferocemente, colpisce ricordare l’episodio in cui Baracca va a trovare l’avversario abbattuto per stringergli la mano. Un esempio di come i piloti della grande guerra, consapevoli epigoni degli antichi cavalieri, riproducessero, nei duelli aerei, le caratteristiche della “singolar tenzone”.

Il nostro “Asso degli assi” nacque a Lugo (Ra) nel 1888 in una famiglia facoltosa. Da ufficiale di cavalleria, nel 1912, assistette a un’esercitazione aerea e fu sedotto dalla nuova Arma: «Ora mi accorgo di avere avuto un’idea meravigliosa, perché l’aviazione ha progredito immensamente e avrà un avvenire strepitoso», scrisse al padre.

Ottenne la prima vittoria aerea italiana, il 7 aprile 1916, abbattendo un Aviatik austriaco. Da allora, un’ininterrotta serie di successi, conseguiti in uno stato mentale particolare: «Quando sto duellando con il nemico, la mia mente è vuota, libera, non pensa. Agisco d’istinto, rovescio l’aereo, lo faccio scivolare d’ala, lo metto in vite, lo richiamo».

L’origine del suo stemma, il cavallino rampante che fu poi concesso, dalla sua famiglia, nel 1923 a Enzo Ferrari, è dibattuta. All’epoca, si diveniva un “asso” solo all’abbattimento del quinto aereo nemico, del quale si potevano assumere le insegne. Il quinto di Baracca fu un aereo di Stoccarda, nel cui stemma civico figura tale simbolo. (I cavallini della Ferrari e della Porsche, fabbrica stoccardese, avrebbero, quindi, la stessa origine). Secondo altri, l’emblema riprendeva lo scudo del suo reggimento, il “Piemonte reale”.

Nel 1917, alla trentesima vittoria, Baracca ricevette la medaglia d’oro e divenne comandante della 91esima squadriglia detta “degli Assi”. Nello stesso anno, cominciò a volare sullo Spad S XIII, un eccellente aereo di fabbricazione francese, prodotto in ben 8.472 esemplari.

Il 19 giugno 1918, mentre le fanterie austroungariche lanciavano il loro ultimo disperato assalto (battaglia del Solstizio), Baracca, fresco reduce dalla sua 34esima vittoria aerea, risalente a quattro giorni prima, ricevette l’ordine di dedicarsi alla sgradevole missione di appoggio alle truppe di terra: niente cavallereschi duelli aerei, ma il mitragliamento delle trincee nemiche. Un’attività rischiosa, perché da compiersi a volo radente.

Fatalmente, diversi proiettili colpirono il suo Spad, che, incendiato, precipitò sul Montello. Ritrovata dopo quattro giorni, la sua salma ustionata presentava una ferita sulla tempia destra. È possibile che l’eroe si fosse suicidato, con la sua pistola, prima di finire arso vivo. Le esequie si svolsero il 26, a Quinto di Treviso: l’elogio funebre fu pronunciato da un commilitone d’eccezione, il maggiore pilota Gabriele D’Annunzio: «L’ala s’è rotta e arsa, il corpo s’è rotto e arso. Ma chi, oggi, è più alato di lui?».