Femminicidio: le armi non c’entrano (e ve lo dimostriamo)

“L’Italia è oggi uno dei Paesi più sicuri al mondo rispetto al rischio di essere vittime di omicidio volontario”. Questo l’incipit del Report Istat sull’andamento degli omicidi pubblicato il 5 febbraio 2021 (relativo all’anno 2019, mentre per l’anno 2020 sono ancora in corso di elaborazione), che propone i dati acquisiti da numerose fonti istituzionali, tra i quali il ministero dell’Interno, le procure della Repubblica, il casellario giudiziale centrale e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. In generale gli omicidi sono in costante diminuzione sin dagli anni Novanta: nel 2019 sono stati 315 (345 nel 2018). In diminuzione soprattutto quelli dovuti alla criminalità organizzata (29 nel 2019, il 9,2% del totale). Vengono uccisi più uomini o donne? Nel 2019 nel complesso sono stati uccisi 204 uomini e 111 donne. Il 19,7% è composto da vittime straniere (di cui 17,6% maschi e 23,4% femmine). In senso assoluto, quindi, gli omicidi sono in costante diminuzione e riguardano più gli uomini che le donne. Chi uccide gli uomini? Gli omicidi di uomini vengono commessi soprattutto da persone sconosciute alla vittima (43,1%) o da autori non identificati (21,1%). Nonostante la diminuzione costante nei numeri assoluti, gli omicidi riferibili a contesti di criminalità organizzata hanno però ancora una forte incidenza sul totale. Prima riflessione. Gli omicidi di criminalità organizzata, ancora una fetta sostanziosa del totale degli omicidi, nulla hanno a che vedere con la legale detenzione di armi. La mafia non uccide con armi legalmente detenute. Ma andiamo avanti. Nel 2019 gli stranieri vittime di omicidio sono stati in totale 62 (19,7%; 17,6% delle vittime tra gli uomini e 23,4% tra le donne). Nel quinquennio 2015-2019 le vittime di omicidio straniere sono per la maggior parte europee (48,6%) e africane (32,1%). Il Paese più rappresentato è la Romania (20,6% del totale delle vittime), seguito da Marocco e Albania (14,4 e 9,9%, rispettivamente). Seconda riflessione: i cittadini stranieri che commettono omicidi in Italia non usano armi legittimamente detenute.

 

In aumento gli omicidi in ambito famigliare

Sebbene in senso assoluto gli omicidi siano in diminuzione, all’interno del loro numero è in costante aumento la componente degli omicidi commessi in ambito famigliare o comunque in quello delle relazioni affettive: 150 nel 2019 (47,5% del totale) di cui 98 vittime sono donne. Balza all’occhio come nell’ambito relazionale la sproporzione uomo-donna si fa davvero importante. Gli omicidi perpetrati in ambito famigliare o affettivo rappresentano il 27,9% del totale delle uccisioni di uomini e l’83,8% delle uccisioni di donne. Ma chi uccide le donne nell’ambito delle relazioni? Le donne sono uccise soprattutto dal partner o ex partner. Infatti su 98 omicidi, 55 (49,5%) sono causati da un uomo con cui la donna era legata da relazione affettiva al momento della sua morte (marito, convivente, fidanzato); 13 (11,7%) sono causati da un ex partner; 25 (22,5%) sono causati da altri famigliari; 5 (4,5%) sono causati da altri conoscenti. Va precisato che molti omicidi che in passato restavano privi di punizione oggi vedono l’identificazione dell’autore grazie a una maggiore conoscenza e attenzione investigativa e giudiziaria al fenomeno: possono così essere ricondotti all’ambito famigliare e concorrere a aumentarne il numero. Ciò nonostante, il fenomeno è comunque indubbiamente in crescita. È all’interno di questo numero che si colloca la pressoché totalità del fenomeno di “femminicidi”. Ma…

 

Cos’è il femminicidio?

Il termine “femicide” è stato diffuso per la prima volta nel 1976 da Diana Russell, che ha definito come femminicidi “omicidi di donne da parte di uomini motivati da odio, disprezzo, piacere o senso di appartenenza delle donne” e come “l’uccisione di donne da parte degli uomini in quanto donne”. Quest’ultima definizione, tra l’altro, è perfettamente allineata alle previsioni della Convenzione internazionale di Istanbul, che ha riconosciuto per la prima volta la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. Nonostante le definizioni che abbiamo riportato, va però detto che ancor oggi in Italia non esiste una previsione giuridica del fenomeno del “femminicidio”, che rimane una definizione non tecnica. Esistono certamente indicatori che possono aiutare a comprendere se l’uccisione di una donna possa essere considerata “femminicidio”, ma è importante chiarire che si stratta di analisi e ipotesi di studio, non di dati normativi. Così, a seconda di quali e quante variabili si prendono in considerazione, il numero dei “femminicidi” può risultare più o meno importante all’interno del numero degli omicidi di donne. Il numero di omicidi con vittime donne può quindi consentire una lettura “elastica”. Tra le variabili utilizzabili in dottrina vi sono le caratteristiche della vittima e dell’autore, la loro relazione, la motivazione di genere dell’omicidio, la precedente storia di violenza domestica e le precedenti condanne avute dell’autore, il contesto e il modus operandi in cui si è verificato l’omicidio.

 

Non solo uccisioni: cosa subiscono le donne

Quanto detto sinora riguarda ovviamente le sole uccisioni. Nell’ambito della famiglia e più in generale delle relazioni, però, l’omicidio rappresenta un piccolo numero se paragonato a tutte le altre forme di violenza subita dalle donne: violenza fisica o sessuale (il 24,7% delle donne ne ha fatto esperienza almeno una volta da parte di uomini non partner; il 13,2% da estranei; il 13% da persone conosciute; il 6,3% da conoscenti; il 3% da amici, il 2,6% da parenti e il 2,5% da colleghi di lavoro); minacce (12,3%); spintoni o strattoni (11,5%); schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%); colpi con oggetti che possono fare male (6,1%); meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Inoltre, le violenze fisiche e sessuali non esauriscono certo le forme di violenza che le donne subiscono. Violenza psicologica ed economica, cioè comportamenti di umiliazione, svalorizzazione, controllo e intimidazione, nonché di privazione o limitazione nell’accesso alle proprie disponibilità economiche o della famiglia sono forme di violenza diffuse, subdole e pesantissime. Infine, il 21,5% delle donne fra i 16 e i 70 anni (pari a 2 milioni 151 mila) ha subito anche atti persecutori (fonte: istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/numero-delle-vittime-e-forme-di-violenza). Terza riflessione: le donne subiscono molte forme di violenza, delle quali l’uccisione è una piccola parte. Con cosa vengono uccise le donne? Qui l’analisi richiede una marcia in più. Il criminologo non può non considerare come le donne vengano uccise per lo più in famiglia; l’omicidio matura in un contesto possessivo, passionale, di malattia psichica dell’omicida, di raptus; lo strumento utilizzato non influisce in alcun modo sulla scelta di uccidere; spesso il trasporto emotivo dell’offender è più appagato da modalità efferate di uccisione, che escludono le armi da fuoco. Anzi, l’utilizzo di un’arma da fuoco rappresenta una modalità di uccisione piuttosto “asettica”, che non consente un pieno sfogo delle pulsioni omicidiarie tipiche del contesto relazionale. Quando, infatti, lo strumento diventa espressione del profilo dell’assassino, quasi mai le armi da fuoco sono coinvolte. Nel contesto di relazione emerge infatti un profilo “primitivo” circa le modalità dell’omicidio. Non siamo solo in presenza di esecuzioni rapide con arma da fuoco, ma di veri e propri ammazzamenti a seguito di colluttazioni corpo-a-corpo in cui l’uomo sfoga una rabbia inaudita. L’arma prevalentemente utilizzata è infatti il coltello, che richiama all’ambito domestico e all’uso del mezzo che si trova più a portata di mano nel momento del raptus. Le donne nel complesso vengono uccise: nel 40,2% dei casi con arma da punta e taglio (coltelli da cucina, pugnali). Vengono colpite ripetutamente e comunque quasi mai con soli uno o due colpi mortali, per poi essere spesso anche soffocate con le mani o il braccio; nel 18% dei casi sorprese e strangolate per mezzo di cavi elettrici, fil di ferro, cinture, sciarpe, lacci o mani; a volte il soffocamento è avvenuto tramite cuscini o sacchetti di plastica; nel 15,5% dei casi colpite e uccise con oggetti di varia natura: martelli, accette, picconi, bastoni, spranghe e rastrelli, impiegati brutalmente e ripetutamente sulla vittima fino a renderla esanime, a fracassarle il cranio; nel 13% dei casi con armi da fuoco (comprese quelle illegalmente detenute); nel 9% dei casi senza uso di armi, con pugni, calci e testate e poi strangolate o soffocate; nel 3,3% degli episodi di omicidio è stato constatato l’utilizzo di liquido infiammabile e accendino utilizzati per occultare il corpo della vittima già deceduta oppure impiegati direttamente sulla vittima ancora in vita (fonte: ministero di giustizia). Quarta riflessione. Proprio perché l’uccisione della donna matura in un contesto di relazione, sia nel caso di raptus sia nel caso di decisione maturata nel tempo si può affermare che lo strumento impiegato diventa davvero irrilevante. Anzi, in un simile substrato di relazione morbosa, di patologie psichiche, di pulsioni passionali, nei casi in cui lo strumento è stato giudicato come rilevante si è trattato di attrezzi che hanno consentito all’offender di trasmettere alla vittima tutta la sua aggressività, come oggetti da taglio e percuotenti, impiegati ripetutamente fino a sfociare in overkilling. Questa è la realtà di quanto le donne ancor oggi subiscono: Italia, anno 2021. Questa la brutalità del fenomeno, il dramma sociale e culturale, la deriva dell’animo umano. Racimolare qualche dato e spenderlo senza alcun raziocinio solo per perorare a priori la propria causa non solo è intellettualmente disonesto, ma non rende giustizia a tutte quelle donne che quotidianamente subiscono ogni tipo di violenza fisica e psicologica. Si è letto da qualche parte che le donne vengono uccise in un terzo dei casi tramite l’uso di armi da fuoco: il dato corrisponde alla statistica mondiale, ma delle già poche armi da fuoco impiegate quante erano armi detenute legittimamente? Annoveriamo per lo più casi di omicidio-suicidio. E anche in quei casi, qual è stata l’incidenza del possesso di un’arma sulla determinazione della volontà di uccidere o sulla capacità materiale di poterlo fare? Ognuno risponda secondo coscienza ma, per favore, smettiamola di colpire le donne una seconda volta strumentalizzando i drammi di cui già, loro malgrado, sono ancor oggi troppo spesso protagoniste.