Bakayoko fermato a Milano: ma quale profiling razziale!

Ha fatto e sta facendo discutere il video che ritrae il calciatore del Milan Tiémoué Bakayoko mentre viene identificato e perquisito da una pattuglia della Polizia di Stato.

Da più parti, infatti, si è gridato allo scandalo, sostenendo il presunto eccesso nell’uso della forza e dell’autorità da parte degli operanti, eccesso che si fonderebbe sul fatto che gli agenti abbiano intimato, armi in pugno, agli occupanti dell’auto fermata di scendere e nell’avere per qualche istante contenuto fisicamente le possibilità di movimento del campione.

Ovviamente non è così. È stato sufficiente conoscere le dinamiche degli eventi per comprendere, infatti, come l’operato degli agenti sia stato ineccepibile. Sono altre, però, le riflessioni occasionate da questo episodio.

I fatti
L’episodio risale al 3 luglio, anche se il video circola solo da pochi giorni sulla rete. In sostanza, quella sera era stato segnalato uno scontro tra spacciatori africani proprio in zona limitrofa a quella in cui il calciatore sarebbe stato fermato di lì a poco (Piazza Gae Aulenti), scontro culminato con l’esplosione di colpi di arma da fuoco. È chiaro che per una pattuglia del pronto intervento, chiamata a prestare attenzione all’accaduto, i dati siano chiari:

  • è in corso una disputa tra spacciatori;
  • i criminali in questione sono armati e violenti;
  • si tratta di criminalità africana.

Ma vi è di più. Sembra, infatti, che siano addirittura state divulgate le note caratteristiche e l’abbigliamento dei soggetti conosciuti come maggiormente pericolosi e che questi assomigliassero al calciatore e alla persona che lo accompagnava.

Che fare dunque? Ovviamente il proprio dovere, vale a dire fermare l’auto in questione dopo aver riscontrato una coincidenza con le poche informazioni in loro possesso circa veicolo e occupanti. Come procedere all’identificazione e alla perquisizione?

Naturalmente in modo proporzionato alla verosimile pericolosità dei soggetti con cui gli operanti stavano per interfacciarsi.

 

Le procedure di identificazione e perquisizione
Nulla di strano, dunque, a che gli agenti abbiano intimato l’alt armi in pugno, a loro tutela di fronte a un rischio presumibile molto alto per la propria incolumità.

Quindi, in maniera non solo legittima ma anche doverosa, ciò che si vede è un operatore che ha preso a perquisire sommariamente il soggetto fermato, al fine di sincerarsi che non portasse le armi segnalate e nel frattempo assicurandosi che questi avesse meno probabilità possibile di una reazione fisica, che avrebbe generato una colluttazione pericolosa e dagli esiti incerti.

Parallelamente, l’altro operante ha garantito sicurezza al collega e allo scenario, sorvegliando gli altri occupanti dell’auto e prevenendo, grazie all’arma, possibili reazioni. Lo stesso web, ahinoi, offre infiniti video di agenti sorpresi da una reazione armata dei conducenti di veicoli, che non lasciano loro il tempo di realizzare ciò che accade né, naturalmente, quello necessario a estrarre ed eventualmente caricare la propria arma di protezione individuale.

 

Le dotazioni delle forze di polizia: non esiste solo il Taser!
Dunque il problema di chi condanna l’operato degli agenti da cosa scaturisce? Dalle modalità guardinghe, accorte e tutelanti con le quali hanno prevenuto l’insorgenza di una reazione dei fermati? O, piuttosto, dal fatto che abbiano agito pistola in pugno? Quanto alla prima ipotesi già si è detto. Quanto alla seconda, vale la pena spendere qualche parola in più. Chi scrive da sempre sostiene con entusiasmo l’adozione di nuove dotazioni per le forze di polizia, siano esse protezioni passive (protezioni balistiche, protezioni anti-taglio e così via), strumenti di coazione (manette di nuova generazione, bolawrap, eccetera) o armi, letali o meno che siano (sfollagente, Taser, arma da fuoco). Proprio per offrire maggiori possibilità e maggior rispetto del criterio di proporzionalità della risposta allo scenario, tutto il settore ha applaudito, dunque, l’adozione di Taser e i primi impieghi ne confermano l’assoluta utilità.

Da subito, però, abbiamo creduto anche di lanciare un doveroso monito: che il Taser non venga trasformato nella panacea di ogni male, nello strumento in grado di gestire ogni situazione e, in definitiva, in una esclusione (di fatto, ma categorica) delle possibilità di impiego dell’arma da fuoco.

Non si scandalizzi l’Italia, quindi, se due agenti impiegati in un servizio di pronto intervento considerano verosimile l’uso della pistola nel momento in cui si accingono a fermare quelli che sembrano essere soggetti indiziati di appartenere a una violenta mafia etnica e coinvolti in una resa di conti tra trafficanti di droga finita a colpi di arma da fuoco!

L’uso del criterio di proporzionalità sembra assolutamente rispettato e nessuna violenza sulle persone viene offerta dal video in questione.

La comunicazione distorta
Da riflessione nasce riflessione. Perché in una società oggettivamente sempre più violenta, con presenze criminali sempre nuove da conoscere e contrastare e con una scollatura tra cittadini e istituzioni divenuta enorme in pochissimi anni, non viene persa occasione per delegittimare le forze dell’ordine? Perché è immancabile la critica alle forze dell’ordine da parte di una fortissima corrente di pensiero e mediatica? Perché, in particolare, si sono condizionati per decenni gli agenti a non poter nemmeno contemplare l’uso di un’arma della quale, numeri alla mano, nessuno ha mai abusato?

Perché, ora che sono finalmente dotati anche di altri strumenti di uso graduale della forza ci si atteggia come se il grado massimo nell’escalation of force non esistesse proprio?

E, per dirla con Cicerone (ma anche con il Gene Gnocchi di qualche anno fa), cui prodest tutto questo? A chi giova?

La Questura di Milano si è limitata a replicare che “Sono commenti fuori luogo, il controllo è scattato perché Bakayoko e l’altro passeggero corrispondevano perfettamente, per un caso, alle descrizioni, e ovviamente è terminato quando ci si è resi conto di aver fermato una persona che non c’entrava“.

Noi, che ci pregiamo ancor oggi di una libertà di espressione che non deve considerare limiti istituzionali, andiamo un po’ più in là.

La delegittimazione e lo “spuntamento” delle forze dell’ordine e delle forze armate è obiettivo specifico di chiunque voglia minare la capacità del Paese di autodeterminarsi e autoproteggersi, oltre che di aumentare lo scollamento tra cittadini e istituzioni, dato che le forze di polizia, in particolare, rappresentano l’interfaccia tra il cittadino e il potere coercitivo dello Stato, che ovviamente deve essere ferreamente disciplinato e coscienziosamente esercitato, ma che rappresenta uno dei pilastri del concetto stesso di Autorità.

Quindi chiunque ha interesse ad aumentare lo scollamento tra cittadini e istituzioni e a corrompere l’autorità statale può fruttuosamente prendere a pretesto ogni episodio per dipingere le forze dell’ordine come violente.

Ma chi ha invise le forze di polizia e il concetto stesso di autogestione della sicurezza e dell’autonomia stessa di un Paese? Chiunque non creda nel modello per cui un Paese deve gestire, se occorre anche con la forza, le sue vicende interne. Chiunque creda che ci possa essere un vantaggio nel proliferare di un disordine incontrollato. Chiunque ritiene che costi meno (politicamente ed economicamente) un bel funerale di qualche sventurato agente e invoca il disarmo ogni qualvolta si verifichi un incidente che coinvolge il mondo delle armi, spalleggiato da un coro di voci che non perdono occasione per lavorare ai fianchi la sovranità di un Paese, pur trincerandosi dietro immagini intoccabili.

 

Profiling razziale? Ma fateci il piacere…
Non a caso leggiamo i commenti sull’accaduto che vengono riferiti ad Amnesty Italia, la quale avrebbe dichiarato che “Le modalità di perquisizione di Bakayoko ricordano l’America”; e ancora che si sarebbe trattato di “una pratica discriminatoria”; per culminare con “le immagini del fermo di Bakayoko fanno pensare a una profilazione etnica“, laddove per profilazione etnica si dovrebbe intendere “sospettosità automatica di una persona in base a caratteristiche estetiche, in primo luogo il colore della pelle“.

Anzitutto proviamo a uscire dal paradosso: gli Usa sono il faro che illumina la strada della democrazia (esportandola, precettando a farlo anche altri Paesi come l’Italia) o sono un pessimo modello di violenza? Giusto per capire, poiché nell’epoca dei paradossi si rischia di trovarsi un Paese come modello inarrivabile la mattina e come becero esempio la sera…

Fuori di provocazione, la sola considerazione rilevante ai nostri fini è che gli Usa, per svariate ragioni storiche e sociali, presenta aree connotate da tassi di delinquenza e pericolosità che hanno inevitabilmente indotto chi pattuglia le strade ad alzare l’asticella della propria preparazione e, purtroppo, anche delle proprie modalità di approccio e intervento.

Leggere, però, di “profilazione” fa davvero sorridere, non fosse altro che chi scrive si pregia di approfondire e divulgare da quasi due decenni i temi legati al profiling come di stretta utilità nella gestione della sicurezza di siti e persone.

Esiste un profiling razziale? Certo. Tra l’altro nei mesi immediatamente successivi ai fatti dell’11 settembre, gli Usa ottennero grandi successi grazie all’impiego di un profiling basato su criteri razziali. In sostanza, cercando gli autori dei noti attentati, che sembravano poter essere giovani-maschi-arabi, hanno ottenuto molti successi nei confronti di diversi player jihadisti, di fatto abbandonando l’uso di criteri razziali solo una volta che questi divennero infruttuosi, per essere sostituiti in larga parte da criteri di profiling comportamentale.

Si è così diffuso l’utilizzo di un profiling di tipo comportamentale, che però si è rivelato un grande strumento di prevenzione, in particolar modo all’atto del controllo accessi e permanenza in determinate aree, osservando la comunicazione non verbale e il linguaggio del corpo delle persone alla ricerca di elementi di anomalia, essendo notoriamente molto più difficile “mentire con il corpo” che con le parole.

Nella ricerca, invece, di un soggetto segnalato come probabile autore di reato, non esiste altra via se non quella di ricercare le sue caratteristiche conosciute nei soggetti in cui ci si imbatte e di comparare quanto si ha modo di osservare con le informazioni ottenute. E certamente si tratta di un profiling che si basa sulle caratteristiche fisiche. Su quali altre basi dovrebbe avvenire questo incrocio? Sui gusti di gelato preferiti?

O, piuttosto, su caratteristiche rilevabili a colpo d’occhio, come le misure antropometriche (statura, peso, forma e caratteristiche di testa, tronco, arti eccetera) e di ogni altra caratteristica immediatamente visibile, come il colore della pelle, presenza di tatuaggi e altri simili?

Le stesse parole attribuite ad Amnesty, per fortuna, tradiscono, già a una prima lettura, il tentativo strumentale di dare una visione distorta dell’accaduto, andando oltre persino alle proprie affermazioni.

Nulla da dire, infatti, sulla illegittimità di una “sospettosità automatica” (è giusto e ovvio che nessuno debba essere sospettato “automaticamente” “solo” per alcune sue caratteristiche), ma la considerazione non si può spingere fino a ritenere offensiva o addirittura discriminatoria un’attività di riscontro, in un individuo, degli stessi tratti dei quali siamo alla ricerca!

Nel caso in commento, infatti, non crediamo proprio che gli agenti in questione abbiano fermato un’auto solo perché occupata da due persone di colore. Gli occupanti dell’auto, infatti, sembra somigliassero in molti tratti alle persone cercate e avevano, per giunta, capi di abbigliamento dello stesso tipo e colore dei criminali segnalati.

O forse l’affermazione di Amnesty va letta nel senso assoluto che non si possa più descrivere fisicamente una persona al fine della sua ricerca? Dire che “il sospettato è maschio, bianco e sovrappeso” è un modo di divulgare caratteristiche salienti ai fini del rintraccio di un soggetto o è razzismo, sessismo e body shaming messi insieme? La cancel culture sta assediando anche il mondo investigativo?

Sarebbe bene saperlo subito, così se occorrerà buttare dalla rupe secoli di scienza dell’investigazione e di buon senso non perderemo altro tempo, anzi scusandoci per l’immagine violenta del “buttare dalla rupe”, che potrebbe urtare qualche anima sensibile e, a pensarci bene, richiama anche un modello classico greco-romano, a cui possiamo addossare la colpa della natura di questa scellerata società che, per fortuna, viene ora rieducata a dovere!