Legge o religione?

Ha suscitato dibattito e polemiche la sentenza della Cassazione che ha condannato un Sikh per il porto, ritenuto ingiustificato, del coltello sacro. Lo scontro tra la normativa sugli oggetti atti a offendere e libertà religiosa presenta, però, un interessante sviluppo dai risvolti paradossali La condanna comminata dalla Cassazione a un uomo di religione Sikh perché sorpreso fuori dalla propria abitazione con un coltello alla cintura, apre un interessante dibattito sul confine tra le normative in materia di armi e le convinzioni religiose, che può portare a un vero e proprio paradosso!
Il movimento religioso Sikh risale al XV secolo: è, in pratica, una religione monoteista i cui seguaci osservano le norme di condotta scritte da 10 guru tra il 1469 e il 1708. I principi fondamentali prevedono di ricordare il creatore in ogni momento, lavorare onestamente e condividere il guadagno del proprio lavoro. L’unica via per la salvezza, secondo i Sikh, è rappresentata dal lavoro onesto e dal condurre una vita normale: per “normalità” si intende, tra l’altro, l’assenza di dipendenza da qualsiasi tipo di sostanza (tabacco, alcool, stupefacenti eccetera). È anche una religione che mette la donna assolutamente sullo stesso piano di eguaglianza rispetto all’uomo.
La religione Sikh prevede che ogni fedele possegga cinque simboli sacri, noti come Panj Kakkar, più brevemente come “le cinque K” perché iniziano con la lettera K. Essi sono Kes, simbolo di santità, che consiste nel tenere i capelli al naturale (cioè senza tagli o rasature); Kangha, cioè il pettine, necessario per tenere i capelli in ordine (ogni Sikh deve pettinarsi due volte al giorno e tenere in ordine il proprio turbante); Kara, il bracciale in acciaio, da indossarsi sul polso destro, simboleggia l’astensione da azioni malvagie. Viene portato perché il Sikh possa pensare due volte prima di fare qualsiasi azione malvagia con le proprie mani; Kachera, un particolare capo di abbigliamento intimo che ricorda il boxer, che ricorda al Sikh la necessità di limitare le proprie passioni e desideri; Kirpan, il coltello, simboleggia la dignità e la fiducia in se stessi e la disponibilità a difendere i deboli e gli oppressi. Tutti e cinque questi simboli, insieme al turbante, costituiscono Khalsa, l’uniforme del Sikh, che distingue il fedele da qualsiasi altra persona ed è essenziale per preservare la vita della comunità e promuovere la fratellanza. Da lunga tradizione, il Sikh non teme di affrontare la tortura o la morte piuttosto che tagliare i capelli o rimuovere uno dei simboli sacri. Questo spiega come mai un cittadino indiano dimorante a Mantova, di religione Sikh, sia stato trovato fuori dalla propria abitazione con il coltello alla cintura: la questione è sfociata in un processo che è arrivato fino in Cassazione. La corte, con una sentenza che sta facendo discutere, ha condannato in via definitiva l’uomo al pagamento di un’ammenda di 2.000 euro perché “portava fuori dalla propria abitazione, senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di 18,5 centimetri idoneo all’offesa per le sue caratteristiche”. La difesa ha fatto notare che il coltello è parte integrante della religione dell’imputato, ma la corte ha respinto il suo argomento decretando che “è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quelli di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”.
Ciò che la Cassazione non ha fatto, a nostro avviso, è stato scendere nel dettaglio della normativa (appunto) sugli strumenti atti a offendere (qual è il Kirpan) attualmente vigente in Italia, e sul rapporto tra le norme italiane e le norme religiose. A questo proposito, la norma di riferimento è l’articolo 8 della Costituzione, che stabilisce: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.
Da quanto esposto, risulta chiaramente che la libertà religiosa non può essere in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano: di conseguenza, se la contrapposizione è tra legge e religione, è quest’ultima che deve soccombere. A puro titolo di esempio, un Sikh che voglia viaggiare in aereo, il “coltello sacro” lo deve imbarcare con il bagaglio in stiva, non può portarlo con sé in cabina. Il punto è, però, che in base alla normativa italiana sugli oggetti atti a offendere, si presenta praticamente un paradosso: l’articolo 4 della legge 110/75, infatti, specifica che il porto di strumenti da punta o da taglio atti a offendere non è vietato, bensì è consentito “con giustificato motivo”. Il paradosso conseguente, quindi, si fonda sul problema se un dettame religioso costituisca o meno “giustificato motivo”, cosa che la Cassazione, nel suo sproloquiare sui valori, si è ben guardata dall’affrontare!
È probabile che la situazione torni presto d’attualità, considerando il fatto che l’Italia è il secondo Paese d’Europa (dopo la Gran Bretagna) per numero di Sikh residenti (circa 60 mila, si stima). Intanto, il malcapitato ha annunciato ricorso alla corte europea, quindi la situazione è tutt'altro che chiusa…