Orsi, lupi e veleni

La barbara uccisione dei tre orsi nel Parco nazionale d’Abruzzo è occasione per formulare una riflessione sull’intera gestione dell’ente Parco, con l’aiuto del nostro collaboratore Alex Guzzi.Orsi e lupi avvelenati nel Parco d’Abruzzo generano rabbia e sdegno. La rabbia è per la stupidità, il danno ecologico e la criminalità dell’azione. Lo sdegno è per chi intende insinuare che possa esserci una relazione anche lontana col mondo venatorio. Ma lasciamo ug… La barbara uccisione dei tre orsi nel Parco nazionale d’Abruzzo è occasione per formulare una riflessione sull’intera gestione dell’ente Parco, con l’aiuto del nostro collaboratore Alex Guzzi. [

] Orsi e lupi avvelenati nel Parco d’Abruzzo generano rabbia e sdegno. La rabbia è per la stupidità, il danno ecologico e la criminalità dell’azione. Lo sdegno è per chi intende insinuare che possa esserci una relazione anche lontana col mondo venatorio. Ma lasciamo ugualmente spazio alla ragione e riflettiamo sull’ accaduto. Il Parco d’Abruzzo è stato per quasi quarant’anni una sorta di feudo intoccabile sotto il profilo della gestione, criticabile anche sotto l’aspetto conservativo-faunistico. Accanto a indiscutibili successi (incremento della superficie, reintroduzione e valorizzazione di alcune importanti specie, informazione e divulgazione) e un ambizioso progetto di coordinamento con le aree protette dell’Abruzzo, il Parco non ha tenuto in alcun conto l’amministrazione economica. Franco Tassi, storico direttore, padre-padrone del Parco è stato denunciato e quindi dismesso dalla sua carica dal comitato direttivo del Parco, liquidato soprattutto a causa del grande debito contratto durante la sua amministrazione. Poi se ne va Fulco Pratesi, presidente dell’Ente, sfiduciato dalla Comunità del Parco e successivamente licenziato direttamente dal Ministero per l’Ambiente. Nella sostanza dei fatti, e la durezza degli attacchi rivolti allora a Tassi (risultato alla fine innocente) lo dimostra, l’Ente parco più antico e vasto d’ Italia non è mai riuscito a comporre l’endemico conflitto con le economie locali, da quelle tradizionali, legate alla pastorizia, all’agricoltura e alla gestione forestale, a quelle emergenti, più aggressive, delle lobby dei costruttori e dell’imprenditorialità turistica. In questo braccio di ferro, a nostro avviso, una strategica alleanza operativa col mondo venatorio avrebbe potuto costituire un’efficace arma impropria contro speculatori e mentalità arretrate, ma la direzione del Parco, centralizzata e arroccata su posizioni coincidenti coi vertici del Wwf, ha sempre reso impossibili dialogo e collaborazioni di alcun tipo coi cacciatori. Si sa che l’integralismo non genera nulla di buono, soprattutto se tende all’eliminazione di ogni critica: così nella situazione faunistica del Parco nessuno ha messo il naso per anni, per timore di essere indicato come antiparco. Emblematica la situazione del Camoscio d’Abruzzo (sottospecie geneticamente affine alla Pyrenaica e, secondo alcuni illustri ricercatori, addirittura derivante da esemplari importati dai Borbone a scopo ornamentale). La popolazione, da 30 anni, è numericamente stabile (700 esemplari) nella Camosciara e nei massicci circostanti. Negli stessi anni sulle Alpi popolazioni identiche, con attività venatoria in atto e pari difficoltà alimentari, si sono triplicate e hanno colonizzato intere catene montuose. Massicci investimenti finanziari ssono stati diretti allo studio dell’orso (e del lupo) mentre non sono state destinate risorse alla sorveglianza, il cui rafforzamento avrebbe costituito ulteriore motivo di legame e opportunità occupazionale per le popolazioni locali. Vigilanza, infatti, non significa solo buona gamba, binocoli potenti e mezzi fuoristrada, ma essere ben inseriti nella realtà che circonda (e anche insidia) il Parco e saperne cogliere i dissensi. I veleni (quelli veri, non il topicida) non si acquistano al supermercato e chi ha imbottito una carcassa di capra di una sostanza in grado di uccidere ben 3 orsi e due lupi, non ha certo lesinato nella quantità. Quale rete di connivenze (e l’aiuto di quale farmacista, medico o veterinario?) ha reso possibile ad un idiota criminale di entrare in possesso di questo veleno? E quale ottima conoscenza dei luoghi e dei metodi di sorveglianza gli ha permesso di piazzare indisturbato l’esca assassina? Evidentemente, a differenza di quanto avviene nei territori alpini che conosco in cui si pratica la caccia (sotto sorveglianza addirittura maniacale di ogni spostamento del singolo), nel Parco d’Abruzzo un individuo può indisturbato entrare in uno dei territori di maggiore tutela portando con sé una carogna di capra farcita di veleno, piazzarla, cancellare le proprie tracce e andarsene, per godersi poi con calma in televisione il risultato dell’impresa criminosa. A fronte della sprezzante dimostrazione di forza e certezza d’impunità di pochi delinquenti, il Parco farebbe bene a considerare seriamente l’offerta spontanea di aiuto che è venuta immediatamente da diverse associazioni venatorie, e trasformarla in qualcosa che vada ben oltre la semplice emergenza (individuazione di eventuali esche avvelenate, rilevamento di animali morti ecc), ma si traduca in migliore controllo del territorio e una presenza costante, con prelievo rigorosamente controllato, nella contesa fascia perimetrale attorno ai confini più critici del Parco. Questa opportunità, oggi dettata da una situazione contingente, potrebbe divenire nel futuro uno strumento eccellente per rafforzare il monitoraggio delle specie più a rischio, ma anche per valorizzare la preparazione e la voglia di fare di molti cacciatori. Quegli stessi vituperati cacciatori, che la stampa nazionale (purtroppo invogliata anche in questa occasione dalle parole di alcuni responsabili del Parco) accomuna sempre volentieri a bracconieri e volgari criminali.