Il ruolo centrale dell’Infs

Con la fine di questa legislatura si chiude anche una stagione politica che ha prodotto diversi tentativi di modifica della legge 157/92, sostenuti da una parte consistente dei cacciatori italiani e osteggiati da altri settori della società. Su questo tema, lo stesso mondo venatorio si è spaccato, evidenziando visioni strategiche e sensibilità profondamente differenti. Di fatto, la riforma della legge è abortita, mostrando, ancora una volta, come la trasversalità dell… Con la fine di questa legislatura si chiude anche una stagione politica che ha prodotto diversi tentativi di modifica della legge 157/92, sostenuti da una parte consistente dei cacciatori italiani e osteggiati da altri settori della società. Su questo tema, lo stesso mondo venatorio si è spaccato, evidenziando visioni strategiche e sensibilità profondamente differenti. Di fatto, la riforma della legge è abortita, mostrando, ancora una volta, come la trasversalità della materia renda difficile produrre qualcosa di nuovo sul piano normativo senza un accordo largo e un compromesso “alto” che raccolga le istanze più ragionevoli ed emargini le posizioni più estreme e acritiche. In una società moderna e complessa, il rapporto uomo-fauna selvatica vive di molte pulsioni, spesso tra loro contrastanti, e la sintesi politica che deve tradursi nelle regole della gestione ha la necessità di trovare un binario su cui incamminarsi, una sorta di linea guida culturale alla quale debbono sempre essere ricondotte le decisioni sui diversi aspetti specifici. Attualmente. questa funzione non può che essere svolta dal concetto di conservazione della biodiversità, di cui la fauna fa parte. Alla base di questo concetto, vi è la necessità di conservare nel tempo comunità animali il più possibile diversificate e abbondanti, anche in ambienti più o meno profondamente alterati da parte dell’uomo, facendo in modo che i meccanismi della selezione naturale continuino a rappresentare il motore della loro evoluzione. La natura stessa della fauna, una risorsa naturale rinnovabile, fa sì che, a certe condizioni, il prelievo periodico di una parte delle popolazioni risulti compatibile con la loro conservazione. È allora evidente che la chiave di volta di una gestione corretta del patrimonio faunistico di interesse venatorio, a qualsiasi scala geografica o amministrativa, è rappresentata dalla definizione dei limiti di compatibilità del prelievo che, a loro volta, non possono essere definiti se non sulla base di sufficienti conoscenze delle caratteristiche biologiche delle diverse specie e dello stato, della dinamica e dei fattori limitanti, che caratterizzano le popolazioni coinvolte. In questo contesto, l’apporto del mondo scientifico e di strutture tecniche appositamente dedicate risulta fondamentale perché possano essere sviluppati efficienti programmi di monitoraggio della fauna selvatica in grado di supportare le politiche di conservazione. Purtroppo, il confronto tra questa necessità e la realtà italiana appare per molti aspetti desolante. Di fatto, se si escludono poche lodevoli eccezioni, gli uffici Caccia e pesca delle regioni e delle province italiane sono concepiti come strutture fondamentalmente amministrative e mancano di specifiche professionalità che, per formazione culturale e precisa specializzazione, possano far fronte ai compiti imposti dall’esigenza di gestire correttamente un patrimonio comune di per sé rilevante e la cui importanza è sempre meglio compresa dalla pubblica opinione. Quanto sopra affermato non vuole, naturalmente, misconoscere il ruolo che nella conservazione delle risorse naturali giocano i processi di mediazione e decisione politica e i meccanismi amministrativi destinati ad applicarli, ma semplicemente ricordare che la conoscenza oggettiva dei parametri scientifici e tecnici che sono alla base di un problema di gestione non può essere elusa. Mentre è evidente come non si possa prescindere dall’apporto di specialisti esterni (per esempio appartenenti al mondo universitario) per la conduzione di ricerche applicate e per una preziosa opera di consulenza su singoli problemi, rimane necessaria la crescita di strutture tecniche in seno alle amministrazioni locali, in grado di seguire in modo costante e coordinato i diversi aspetti gestionali (individuazione dei problemi e delle priorità, raccolta capillare dei dati faunistici e gestionali, contatti con l’Istituto nazionale per la fauna selvatica (Infs) per la definizione di metodologie univoche di raccolta dei dati e per il loro trasferimento nelle banche dati nazionali, verifica dell’attuazione dei programmi e dei risultati conseguiti). D’altra parte, anche i rapporti tra l’Istituto nazionale per la fauna selvatica e le amministrazioni risulterebbero facilitati dalla presenza in queste ultime di interlocutori a livello tecnico e, in passato, non poche difficoltà sono scaturite dalla loro mancanza. Non va dimenticato che l’Infs ha il compito di fornire le linee direttrici per la conservazione della fauna sulla base della propria autonoma attività di ricerca, dell’esame critico e aggiornato dei risultati della ricerca svolta da altre istituzioni sia italiane sia di altri Paesi, dei contatti diretti instaurati con organizzazioni internazionali di conservazione della natura e istituti a esso analoghi, particolarmente nei Paesi dell’Unione europea, ma rimane evidente che il trasferimento sul territorio di tali indirizzi può realizzarsi soltanto attraverso il coinvolgimento di strutture tecniche più capillarmente distribuite. Parimenti, la raccolta dei dati faunistici e gestionali sul territorio in maniera diffusa, per evidenti motivi pratici e organizzativi, non può essere condotta da una struttura centralizzata e caratterizzata da una dotazione di risorse assai limitata quale l’Infs. Il testo unificato di modifica della legge 157/92 presentato alla camera dei deputati nella scorsa primavera, apparentemente tentava di dare una risposta alle esigenze sopra richiamate attraverso la facoltà data alle regioni di istituire propri “Istituti regionali per la fauna selvatica”. Il dettato della proposta poneva, tuttavia, una serie di problemi di ordine funzionale e giuridico. Innanzitutto, il rapporto tra l’Infs e gli istituti regionali veniva regolato sulla base di una non meglio precisata “intesa” e di un generico “coordinamento” che lasciava amplissimi spazi di interpretazione e, soprattutto, apriva la strada a un’applicazione assai difforme da una regione all’altra, con le conseguenze negative facilmente intuibili per la realizzazione di quel meccanismo di operatività sinergica e razionale che si è appena cercato di delineare. A tal proposito, è il caso di ricordare che il sostanziale dualismo che si verrebbe a creare tra l’Infs e gli istituti regionali contrasta con i modelli organizzativi che sulla materia della consulenza scientifica e tecnica in tema di conservazione della fauna selvatica sono stati adottati dai Paesi culturalmente ed economicamente avanzati, anche quelli caratterizzati da un assetto tipicamente federale (si pensi, per esempio, agli Stati Uniti, al Canada, all’Australia). Non va, inoltre, dimenticato che la necessità per lo Stato di avvalersi dell’ Infs come organismo nazionale, responsabile in maniera univoca delle funzioni testé ricordate, è stato più volte richiamato dalla Corte costituzionale, in ottemperanza a quanto previsto dall’articolo 117 della Costituzione. Per esempio, recenti sentenze della Corte hanno ribadito come la definizione delle specie cacciabili e dei tempi di caccia debbano essere attribuite allo Stato e la consulenza rispetto a queste materie debba essere svolta dall’Infs, che è in grado di garantire un approccio organico a problemi di conservazione che non sono evidentemente affrontabili in un’ottica regionale. Gli stessi organismi della Ue delegati alla verifica dell’applicazione delle direttive comunitarie di carattere faunistico chiedono che ciascun Paese presenti i propri dati in maniera organizzata e definisca un’unica autorità scientifica di riferimento. Infine, non va sottaciuto come l’espressione dei pareri tecnico-scientifici previsti dalle normative nazionali e internazionali alternativamente da parte dell’Infs e dei preconizzati istituti regionali, oltre a contrastare con criteri evidenti di operatività, darebbe, con tutta probabilità, luogo a un aggravamento del contenzioso in sede di giustizia amministrativa che già oggi caratterizza pesantemente l’applicazione delle norme sulla tutela della fauna e l’esercizio venatorio. È dunque sperabile che nel prossimo futuro il nostro Paese sappia dotarsi di un organico sistema di supporto scientifico e tecnico alla gestione della fauna, basato su un adeguato e necessario potenziamento dell’Infs e, contemporaneamente, sulla crescita degli osservatori faunistici regionali, evitando sprechi e sovrapposizioni di ruoli e assicurando, invece, un efficace coordinamento e le opportune sinergie.