Il divieto di detenzione delle armi richiede rigorosa motivazione

Con sentenza n. 01079 dell’8 febbraio 2022 (pubblicata il 17 febbraio), la sezione quinta del Tar della Campania ha accolto il ricorso di un cittadino che si era visto respingere dalla prefettura di Caserta l’istanza di riesame circa il provvedimento di divieto di detenzione di armi ex articolo 39 Tulps, che era stato comminato in funzione del fatto che il ricorrente era stato denunciato per delitti contro la pubblica amministrazione e per trasferimento fraudolento di valori. Al cittadino veniva inoltre contestata la frequentazione con gli altri coimputati del medesimo procedimento penale, ritenuti “contigui” ad ambienti malavitosi. Il cittadino peraltro, nella propria richiesta di riesame, aveva evidenziato che il procedimento penale era stato archiviato nei suoi confronti e che la frequentazione con i soggetti in questione era stata del tutto occasionale e legata esclusivamente a ragioni lavorative.

I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso del cittadino, argomentando che “Ferma restando l’ampia discrezionalità che connota il potere valutativo dell’amministrazione in materia, a tutela degli interessi primari della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, non può obliarsi che la discrezionalità deve essere esercitata in coerenza con la situazione di fatto, oggettivamente esistente, e mediante la formulazione di una congrua motivazione circa le ragioni, concrete ed attuali, dalle quali possa desumersi il rischio di un abuso delle armi. In tema di divieto di detenzione e porto d’armi, o di revoca dei titoli autorizzativi, il potere discrezionale della pubblica amministrazione va esercitato nel rispetto dei canoni tipici della discrezionalità amministrativa, sia sotto il profilo motivazionale, sia sotto quello della coerenza logica e della ragionevolezza, dandosi conto in motivazione dell’adeguata istruttoria espletata al fine di evidenziare circostanze di fatto in ragione delle quali il soggetto sia ritenuto pericoloso o comunque capace di abusi. Il pericolo di abuso delle armi deve essere comprovato e richiede un’adeguata valutazione non solo del singolo episodio, ma anche della personalità del soggetto sospettato, che possa giustificare un giudizio prognostico sulla sua sopravvenuta inaffidabilità, come in caso di personalità violente, aggressive o prive della normale capacità di autocontrollo (cfr. tra le altre, T.A.R. Campania – Salerno, sez. II, 01 giugno 2017, n. 994; T.A.R. Umbria, n. 97 del 23 gennaio 2017; T.A.R. Basilicata, n. 261 del 26 maggio 2015). In altri termini, “i requisiti attitudinali o di affidabilità dei richiedenti tali licenze devono pur sempre essere desunti da condotte del soggetto interessato, anche diverse da quelle aventi rilievo penale e accertate in sede penale, ma devono essere significative in rapporto al tipo di funzione o di attività da svolgere, non essendo ammissibile che da episodi estranei al soggetto finiscano per discendere conseguenze per lui negative, diverse ed ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge e non suscettibili, secondo una valutazione ragionevole, di rilevare un’effettiva mancanza di requisiti o di qualità richieste per l’esercizio delle funzioni o delle attività di cui si tratta, traducendosi così in una sorta di indebita sanzione extralegale” (T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 4 gennaio 2013, n. 120, e 14 gennaio 2014, n. 279). La valutazione di segno negativo in ordine al possesso di detto requisito deve, in ogni caso, collegarsi a fatti e circostanze che, per la loro gravità, la reiterazione nel tempo, l’idoneità a coinvolgere l’intera vita familiare, sociale e di relazione dell’interessato, vengano a incidere su un piano di effettività sul grado di moralità e sull’assenza di mende ordinariamente esigibili per potere aspirare al rilascio della licenza di polizia” (Cons. di St., sez. III, 9.06.2014, n. 2907; T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 8.01.2018, n. 114)”.

I giudici hanno valutato che “Invero, gli esclusivi profili ritenuti fondativi della disposta revoca del titolo di polizia, menzionati nel provvedimento impugnato, attengono, da un lato, all’unico episodio per cui il ricorrente è stato deferito all’autorità giudiziaria per i reati contro la Pubblica Amministrazione, nonostante l’instaurato procedimento penale si fosse concluso con la sua archiviazione stante l’inconsistenza del fatto di reato; dall’altro, al rapporto di lavoro intrattenuto dal ricorrente con gli altri coimputati nel medesimo procedimento, ritenuti contigui ad ambienti malavitosi. Orbene, con riguardo alla prima vicenda, in assenza di ulteriori fattori, non solo la stessa non appare (più) idonea a sorreggere il giudizio prognostico sulla pericolosità del soggetto, già titolare del revocato titolo da numerosi anni, ma neppure consente, in presenza di un fatto isolato non strettamente connesso all’utilizzo delle armi e/o alla loro detenzione (e, peraltro, non sostenuto dall’accertamento in sede penale successivo alla sua mera originaria rilevazione), di ritenere che il titolare della licenza abbia perso il possesso dei requisiti soggettivi, non offrendo più garanzia nel non abuso delle armi. Può trovare applicazione il condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Piemonte, sez. I, 19/07/2018, n. 894) secondo cui ad un singolo ed isolato episodio di scarsa gravità non può conseguire automaticamente anche un divieto generale di detenzione delle armi nonché il mancato rinnovo della licenza. A fronte dell’oggettiva tenuità del fatto, del suo effettivo sviluppo in sede penale, della sua occasionalità, oltre che della mancanza di ulteriori elementi sopravvenuti nel corso degli anni idonei a palesare una qualche reiterazione di comportamenti espressivi di inaffidabilità, risulta del tutto parziale l’istruttoria valorizzata dall’amministrazione, basandosi quest’ultima su un fatto isolato e collocato in un preciso e delimitato arco temporale (anno 2003), neppure fattualmente accertato in carenza di vaglio specifico in sede penale e di distinto vaglio in sede amministrativa, senza evidenziare profili di attualità cui ancorare la valutazione di inaffidabilità. Il giudizio di inaffidabilità è rimesso alla valutazione discrezionale dell’amministrazione che deve, tuttavia, svilupparlo tenendo conto anche della situazione attuale, specie allorché, come nel caso in esame, gli elementi negativi a carico dell’istante si sostanziano in un unico episodio di cui sia stata accertata l’irrilevanza penale, in assenza peraltro di ulteriori condotte negative. In tale contesto, il provvedimento risulta fondato su un’istruttoria parziale e reca una motivazione inadeguata, perché ancorata ad un fatto che, per gli elementi appena indicati, non si può giudicare espressivo dell’attuale inaffidabilità del ricorrente”.

Relativamente alle “frequentazioni sbagliate”, i giudici hanno inoltre osservato che “la resistente amministrazione si è limitata ad addurre che il ricorrente aveva intrattenuto rapporti lavorativi con soggetti inseriti in tali contesti delinquenziali, senza tuttavia supportare tale affermazione mediante una puntuale descrizione (occasionalità, continuità, unicità) e datazione (in epoca recente ovvero risalente nel tempo, come invece sostiene il ricorrente) di tali rapporti, non emergendo dagli atti del procedimento in esame il riscontro, sul piano oggettivo, di una stabile frequentazione e contiguità attuale del ricorrente con i predetti soggetti, cui possa collegarsi il paventato abuso del titolo autorizzatorio. Non vengono, in altri termini, allegate ulteriori e concrete circostanze di fatto tali da far emergere il potenziale vulnus alle condizioni di sicurezza e di incolumità delle persone per la possibile sottrazione o abusivo impiego dell’arma. Né, sul piano soggettivo, vengono posti in rilievo precedenti penali a carico del ricorrente o una condotta di vita che sia segnata da episodi idonei a far dubitare della sua affidabilità o sintomatici di un’attuale e consolidata vicinanza ad organizzazioni criminali. In fattispecie analoghe, la costante ed oramai consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato l’illegittimità del provvedimento di inibitoria “basato sul solo elemento soggettivo del rapporto di parentela, di affinità o lavorativo, senza indicare eventi e circostanze da cui possa derivare in fatto il periculum per omessa o insufficiente custodia“, ovvero che “dà rilievo unicamente al dato soggettivo del rapporto di frequentazione con soggetto nei cui confronti siano riscontrati pregiudizi e contiguità alla criminalità organizzata” (Cons. di Stato, III, sent. n. 2312/2014; IV, sent. n. 1671/2003; III, sent. n. 581/2014). Si rende, pertanto, opportuna una aggiornata valutazione tale da integrare una motivazione più rigorosa, anche alla luce del provvedimento favorevole adottato all’esito del concluso procedimento penale, che investa, nel rispetto dei canoni di ragionevolezza e di coerenza, il complesso della condotta di vita, all’attualità, del soggetto interessato (T.A.R. Molise, 8.05.2015, n. 192 e 4.05.2015, n. 169)”.