Non si fanno in caserma!

Alcune questure non accettano più i certificati psicofisici per il rilascio dei Porto d’armi, se rilasciati da medici militari al di fuori delle loro strutture di servizio. Un colossale equivoco generato da una improvvida lettera del 2013 del ministero della Difesa

Il caos burocratico italiano genera mostri con cadenza ormai mensile. Per questo, da ormai troppo tempo gli appassionati sono costretti a restare costantemente sugli spalti, a rintuzzare le “genialate” partorite dalla pubblica amministrazione. La novità di questo mese è che alcune questure (quella di Roma in primis) stanno rifiutando agli appassionati che presentano i documenti per il rilascio o il rinnovo di un Porto d’armi, i certificati di idoneità psicofisica rilasciati dai medici militari. A meno che dal certificato stesso non risulti che è stato rilasciato non solo da un medico militare, ma anche all’interno della relativa struttura di servizio (ospedali militari, strutture sanitarie della polizia di Stato). Se, invece, il medico con le stellette ha rilasciato il certificato in un proprio ambulatorio o in altro luogo (pensiamo alle autoscuole), e quindi manca il bollo della struttura, nisba, carta straccia. Ma perché?

 

Una lunga diatriba

Si tratta dell’ennesimo capitolo di una diatriba che va avanti da oltre 15 anni, cioè da quando (28 aprile 1998) fu emanato l’ultimo decreto del ministero della Sanità relativo all’accertamento dei requisiti psicofisici per il rilascio dei porti d’arma. Infatti, mentre l’articolo 35 del Tulps, nello specificare quali autorità fossero competenti al rilascio del certificato medico per il nulla osta (e in senso lato per il Porto d’armi) indicava genericamente “dal settore medico legale delle Aziende sanitarie locali o da un medico militare, della polizia di Stato o del Corpo nazionale dei vigili del fuoco”. Il decreto ministeriale del 14 settembre 1994 (sostituito da quello del 28 aprile 1998) stabiliva inoltre che il certificato potesse essere rilasciato da “strutture sanitarie militari o della polizia di Stato o da singoli medici del ruolo professionale dei sanitari della polizia di Stato o da medici militari in servizio permanente e in attività di servizio”. Invece l’articolo 3 del decreto attribuì tale competenza agli uffici medico-legali, ai distretti sanitari delle Unità sanitarie locali e alle “strutture sanitarie militari e della polizia di Stato”. Sembra la stessa cosa, ma non lo è: nella prima indicazione, infatti, è il “medico militare” a essere competente al rilascio, mentre nella seconda è la “struttura sanitaria militare”. Ne consegue che nel primo caso il medico militare può rilasciare il certificato sia che stia operando fisicamente nella struttura militare, sia che si trovi nel proprio ambulatorio privato, nel secondo caso teoricamente no. Teoricamente, appunto.

Della questione si occupò, in tempi molto rapidi, il Tar del Veneto (logicamente dietro ricorso), pronunciando il 3 settembre 1998 l’ordinanza numero 1.217, con la quale si sospese cautelarmente l’efficacia dell’articolo 3 del decreto. In attesa di un pronunciamento definitivo sulla questione che, a quanto pare, non arrivò mai.

A stretto giro si pronunciò anche la Direzione generale della sanità militare del ministero della Difesa con la circolare 559/C28180.10100A(1) del 1° giugno 1999, nella quale oltre a dar conto dell’ordinanza sospensiva del Tar, si precisò che “È parere di questo ufficio che deve ritenersi applicabile il precedente decreto del ministero della Sanità del 14 settembre 1994, limitatamente alla parte oggetto dell’impugnativa (art. 3), ovvero devono ritenersi validi i certificati forniti dai singoli sanitari”. La circolare specificò anche che “Nella considerazione che un decreto ministeriale non può abrogare una norma di legge tuttora vigente (art. 35 del Tulps), la scrivente ritiene che tutti i medici militari in servizio permanente e in attività di servizio, possono rilasciare le certificazioni in argomento che, comunque, come sempre dovranno essere redatte secondo gli inderogabili dettami suggeriti da scienza e coscienza e avvalendosi, se del caso, anche della consulenza di specialisti”.

Occorre intendersi sul termine “in attività di servizio”, perché ci sarà utile per procedere nel ragionamento. Con tale termine non si intendeva, infatti, che i medici militari dovessero trovarsi fisicamente all’interno dell’ospedale militare, ma che semplicemente vi risultassero in servizio attivo, per differenziarli dai medici militari in quiescenza. La precisazione non era secondaria, perché l’articolo 119 del codice della strada consentiva anche a questi ultimi di emettere i certificati per il rinnovo della patente di guida, mentre per il rilascio dei certificati per il Porto d’armi risultavano tassativamente esclusi.

 

Anni di quiete, e poi…

Una volta raggiunto questo “equilibrio” di interpretazioni da parte del ministero della Difesa, la situazione non è più cambiata fino al 2013: i medici militari hanno seguitato a rilasciare i certificati in questione nei propri studi o nelle autoscuole (con significativi vantaggi in termini di tempo d’attesa e orari di ricevimento, per gli appassionati d’armi, rispetto ad alcune Asl), questure e commissariati hanno continuato ad accettarli senza colpo ferire, anche dopo l’eventuale perenzione del giudizio davanti al Tar del Veneto (in parole povere, la decadenza di tutto il processo amministrativo del 1998 per il mancato compimento di atti necessari al suo proseguimento da parte delle parti, cosa che generalmente avviene nel termine massimo di cinque anni) e, quindi dell’altrettanto inevitabile decadenza dell’ordinanza sospensiva.

Tutto questo fino, appunto, al 2013, più precisamente fino al 4 luglio, allorché l’Ispettorato generale della sanità militare dello stato maggiore della Difesa ha inviato alla questura di Salerno e per conoscenza al ministero dell’Interno una lettera, nella quale ha voluto ribadire e chiarire il concetto di medici “in servizio”. Nella lettera, infatti, si legge che “L’accertamento dei requisiti psicofisici… è riservato esclusivamente al personale medico in attività di servizio. Pertanto, a parere di questo Ispettorato generale, gli ufficiali medici in “ausiliaria” o in “riserva” possono rilasciare i certificati in titolo, purché si trovino nella condizione di trattenuti o richiamati temporaneamente in servizio ed operino presso le strutture sanitarie militari di cui al summenzionato articolo 3. In tale contesto, si ritiene infine opportuno ribadire che risultano tassativamente esclusi dalla potestà certificativa in oggetto i medici militari in quiescenza ovvero cessati definitivamente dal servizio, ancorché gli stessi siano, a mente dell’articolo 119 del decreto legislativo 30 aprile n. 285 recante Nuovo codice della strada, legittimamente abilitati ad altra attività certificativa concernente l’idoneità alla guida di autoveicoli e motoveicoli”.

Insomma, si ritorna all’inizio: il ministero della Difesa non intendeva dire che i medici militari dovessero rilasciare i certificati obbligatoriamente dentro le strutture di riferimento ma semplicemente che, per poterli rilasciare, avrebbero dovuto risultarvi in servizio. Vi pare la stessa cosa?

In effetti, la scelta delle parole utilizzate nella lettera del 2013 è stata forse poco felice, anche se tutto sommato, per interpretarla nel modo corretto, si sarebbe potuto semplicemente fare riferimento alla “storia” precedente della vicenda (che abbiamo cercato di riassumervi). Alcune questure però hanno preso la strada apparentemente più comoda (in buona o cattiva fede, questo non è dato sapere), ed ecco il patatrac. E ora?

E ora, la situazione è così fatta: alcune questure (per fortuna) non si sono adeguate a questo grossolano equivoco, e quindi proseguono con la prassi consolidata; dal ministero dell’Interno, indicazioni precise che giustifichino questo nuovo orientamento non sembrano esserne state emanate. Anzi, nel frattempo, secondo le indiscrezioni pervenuteci sembra che il ministero sia stato recentemente investito della questione, e che i funzionari stiano cercando una soluzione che possa riportare il tutto nell’alveo della normalità. Per quanto riguarda le questure “creative”, in attesa di un provvedimento ministeriale (che si auspica rapido) che possa ripristinare la situazione precedente, le strade sono in effetti tre: la prima, spesso (purtroppo) preferita dagli appassionati per quieto vivere, è quella di abbassare supinamente il capo e mettersi in coda all’Asl quando c’è da rinnovare il Porto d’armi; la seconda è quella di cercare di far ragionare l’ufficio armi della questura, portando a loro conoscenza tutta la vicenda e non solo l’ultimo capitolo (sì, lo sappiamo, è quasi sempre tempo perso, ma non si sa mai!); la terza, al solito, è quella di fare ricorso al Tar quando la questura dovesse rifiutarsi di accettare il certificato medico rilasciato dal medico militare, al di fuori della struttura di servizio. Ma in quest’ultimo caso, visti anche i costi, è preferibile attendere gli sviluppi ministeriali.